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SENJŌ
Lavare Purificando
La pulizia del nostro corpo fisico equivale, nel Dharma del Buddha, al purificare la mente. Per questo motivo, azioni quali tagliarsi le unghie, rasarsi il capo, lavare il corpo, divengono tutti aspetti di una prassi religiosa molto importante. Il Maestro Dōgen, in questo capitolo, sottolinea la necessità di un corretto contegno anche in questo ambito, e fornisce una descrizione minuziosa delle regole in vigore, persino nell’uso del gabinetto. Infatti: “Anche al gabinetto i Buddha esercitano la Via.”
I Buddha e i Patriarchi preservano la loro prassi e illuminazione attraverso l’azione pura e concentrata.
Una volta, il sesto Patriarca[1] chiese a Dai-e,[2] del Kannonin, sul monte Nangaku: “Perché cerchiamo prassi e illuminazione?” Dai-e rispose: “Prassi e illuminazione non sono non-qui, ma non possono essere conseguite se sussiste qualche impurità.” Il sesto Patriarca allora disse: “Nessuna impurità, è ciò che tutti i Buddha preservano. Tu sei così. Io sono così. Invero tutti i Patriarchi dell’India hanno detto la stessa cosa.”
Nel “Daibikku Sanzen Iigi Sūtra”[3] si dice: “Per purificare il corpo, eliminate ogni impurità interna e tagliatevi le unghie.” Per quanto corpo e mente possano essere impuri, esiste un metodo capace di purificare non solo il nostro corpo ma il mondo intero. Inoltre, i Buddha e i Patriarchi, pur soggiornando in una terra priva di polvere e sporcizia, operano per mantenere e aumentare la loro purezza. Anche dopo aver conseguito la Via essi non diminuiscono lo zelo né abbandonano l’addestramento. La loro essenza non può essere misurata: è il loro contegno e atteggiamento. Questo atteggiamento è il loro conseguimento della Via.
Nel capitolo Jogyobon dell’Avatamsaka Sūtra è scritto: “Entrando nel gabinetto, proponetevi di eliminare ogni possibile sporcizia e di lasciar cadere brama, collera e stupidità. Purificatevi con acqua, fate voto di seguire la Via Suprema ed addestratevi alla rinuncia al mondo. Dopo esservi lavati, dedicate un pensiero benevolente a tutti gli esseri senzienti e fate voto di mantenere una vera equanimità; allora non ci sarà né impurità né sporcizia.”
Originariamente, sia l’acqua, sia il nostro corpo non sono né puri né impuri, e questo vale per ogni cosa. Inoltre, sia l’acqua sia il nostro corpo non sono, in origine, né animati né inanimati. Tutte le cose sono così, compreso l’insegnamento dell’Universalmente Venerato. Dunque, l’acqua non può purificare i nostri corpi. Preservare il Dharma e agire in modo puro, secondo gli insegnamenti del Buddha, purifica corpo e mente. Allora il corpo e mente dei Buddha e dei Patriarchi è trasmesso come nostro proprio corpo e mente; allora siamo in grado di vedere e udire gli insegnamenti dei Buddha e dei Patriarchi. Una tale purificazione realizza innumerevoli virtù. Il momento giusto perché la vera prassi di corpo e mente sia nobilitata, è quando gli aspetti eterni di ogni reale attività sono manifesti; allora emerge l’essenza della prassi di corpo e mente.
Dobbiamo tagliare sia le unghie delle mani sia quelle dei piedi. È scritto nei sūtra che avere le unghie più lunghe di un bu[4] è un’infrazione e dunque, non lasciate che crescano come quelle della gente comune. Controllate che la loro lunghezza sia quella giusta. Vi sono monaci nella Cina della grande dinastia Sung che, non studiando con il corretto atteggiamento, lasciano che le unghie crescano; alcuni le portano lunghe uno o due ts’un,[5] altri addirittura tre o quattro. Questo è contrario ai precetti, e non è il corpo e mente del Dharma del Buddha; tali monaci non comprendono l’Insegnamento del Buddha.
Un sacerdote virtuoso, il cui atteggiamento sia determinato da una mente retta, non si comporta così. Alcuni monaci, poi, si lasciano crescere i capelli benché anche questo sia proibito. Non fate l’errore di ritenere che tali atteggiamenti rappresentino il vero Dharma solo perché questi monaci provengono da un paese grande e potente. Il mio defunto Maestro, un vecchio Buddha, ammoniva così chi si lasciava crescere unghie e capelli: “Coloro che non riescono a comprendere il significato di radersi il capo non sono né laici né monaci. Essi non sono altro che bestie. Tra tutti i Buddha e i Patriarchi del passato, neppure uno trascurò di radersi il capo. Se non riuscite a comprendere ciò, siete soltanto animali.”
A seguito di questo rimprovero molti monaci si rasarono la testa. Il mio Maestro ammoniva aspramente i monaci che sbagliavano, sia nel corso dell’insegnamento formale sia in occasione di discorsi informali. Diceva loro che si lasciavano crescere unghie e capelli solo perché non capivano nulla, che ciò era veramente miserevole e che, malgrado avessero un corpo umano, si erano completamente allontanati dalla Via. Egli affermava che negli ultimi due o trecento anni la Via dei Patriarchi era gradualmente scomparsa e che, per contro, aumentava il numero delle persone trascurate.
Alle volte, tali persone diventano responsabili di un tempio e ricevono grandi onori dall’imperatore, pretendendo nel contempo di essere guide spirituali. Questo è uno scandalo in cielo e in terra. In tutti i templi montani della grande dinastia Sung, a stento vi è qualcuno che possieda la mente che cerca il Buddha; perciò, coloro che hanno conseguito la Via, sono pressoché introvabili. I monaci diventano soltanto sempre più degenerati. Il mio Maestro trattava spesso questo argomento, nei suoi discorsi informali, eppure, in diversi luoghi, gli anziani ignoravano i suoi rimproveri. Dobbiamo comprendere che i monaci che portano i capelli lunghi sono aspramente criticati dai Buddha e dai Patriarchi, e che solo la gente comune si fa crescere le unghie. I discendenti dei Buddha e dei Patriarchi non agiscono mai così, ma permangono puri nel corpo e nella mente, radendosi il capo e tagliandosi le unghie.
Non siate così indolenti da non lavarvi le mani dopo essere andati al gabinetto. C’è una storia che narra di come Śāriputra, mediante l’osservanza di questo precetto, convertì un popolano. In quel momento ciò avvenne senza intenzionalità né da parte di Śāriputra, né da parte del popolano; accadde mediante il potere e la dignità dei Buddha e dei Patriarchi, che vincono ogni azione malvagia.
Nel caso dell’addestramento all’aperto o nei boschi, è necessario costruire una latrina. Lavatevi con acqua e sabbia prelevate da un fiume o da un torrente. Dopo esservi tolti l’abito, sistemate su una pietra, o in qualche altro posto adatto, sette palline di sabbia delle dimensioni di un grande seme di soia, disponendole su due file. Mettete poi da parte alcuni sassi da usare più tardi, per pulire. Potete ora servirvi di questa latrina. Quando avete finito, utilizzate una spatola o della carta. Andate al fiume e lavatevi le mani. Prendete tre palline di fango. Mettete la prima sul palmo della mano, mescolatela con un poco d’acqua e lavatevi i genitali. Prendete poi la seconda pallina, impastatela con l’acqua e lavatevi le natiche. Con l’ultima pallina pulitevi le mani.
Quando i monaci iniziarono l’addestramento nei templi, fu necessario costruire un gabinetto. Il suo nome è tosu,[6] mentre in passato sveniva chiamato shin,[7] o shi.[8] È assolutamente necessario che nel monastero vi sia un gabinetto. Il corretto modo di utilizzare il gabinetto è il seguente. Prendete uno shukin,[9] ripiegatelo in due parti e ponetelo sulla spalla sinistra. Quando giungete al gabinetto, posate l’asciugamano sul jokan, l’asta di bambù che si trova vicino al gabinetto. Se indossate il kujoe o lo shichijoe,[10] riponetelo vicino allo shukin, accertandovi che non cada; non gettatelo mai sull’asta con noncuranza. Ricordate in quale punto dell’asta è scritto il vostro nome; dovrebbe essere scritto su di un pezzo di carta a forma di mezzaluna. Non dimenticate dove avete collocato il vostro abito, e non confondetelo con quello di altri, in particolare quando vi siano molti monaci.
Se ci sono altre persone, prendete il vostro posto nella fila e, con il pugno sinistro nella mano destra, fate un leggero inchino agli altri. Anche nel gabinetto, salutatevi l’un l’altro con un inchino, pure se non indossate l’abito. Se non state usando le mani, tenetele sul petto; se dovete usarne una, tenete l’altra nella posizione di gasshō[11] eseguito con una sola mano, incurvando leggermente le dita verso il palmo, come quando si tengono le mani a coppa per poter raccogliere l’acqua. Tutti i monaci dovrebbero seguire questa prassi.
L’abito dovrebbe essere riposto sull’asta, vicino al telo, in questo modo: toglietevi l’abito esterno, unite le braccia e piegatele sopra la schiena; con la mano sinistra afferrate il bavero e sollevate l’abito con la destra, piegandolo a metà verso il basso e poi ancora in mezzo, di modo che il bavero sia rivolto verso l’asta e la parte posteriore verso di voi. Appendetelo ora alla sbarra. Avvolgete il telo attorno all’abito e poi legatelo, avendo cura di non far cadere il vestito. Fate gasshō. Prendete il bansu[12] e rimboccatevi le maniche. Andate poi al joka, dove ci si lava le mani; versate l’acqua in un secchio, prendetelo con la mano destra e recatevi al gabinetto. Non riempite completamente il secchio, solo i nove decimi della sua capienza. Davanti al gabinetto cambiate le ciabatte, calzando quelle apposite di paglia. Questo è chiamato kanzai, cambiare le ciabatte.
Nello Zen’en-shingi[13] è scritto: “Non ritardate nel recarvi al gabinetto; assicuratevi di avere il tempo sufficiente per eliminare le vostre impurità interne. Non abbiate fretta. Posate il kesa[14] su una mensola nell’alloggio dei monaci, oppure sull’asta di bambù fuori dal tosu.”
Entrate nel gabinetto dal lato sinistro del corridoio di accesso, spruzzate dell’acqua sulla tazza del cesso, e posate il secchio al suo posto. Purificate il gabinetto schioccando tre volte pollice e indice della mano destra; chiudete a pugno la mano sinistra e appoggiatela contro l’anca. Dopo aver rialzato l’orlo del sottoabito contro il corpo, accovacciatevi e eliminate le impurità. State attenti a non sporcare davanti, dietro o di lato. Restate in silenzio. Non parlate con la persona nel gabinetto vicino, né canticchiate o recitate poesie; non sbavate né lasciate gocciolare il naso, non spargete nulla in giro, non grugnite e non fate disegni sul muro. Non fate segni sul pavimento con la spatola.
Quando avete finito usate o la spatola, o la carta. Accertatevi di non usare mai carta antica, o recante scritte. Siate attenti nel distinguere una spatola già usata da una non ancora utilizzata. La spatola dovrebbe essere lunga otto ts’un, spessa circa come il pollice e di forma triangolare; può essere laccata, o meno. Riponete la spatola usata nell’apposito contenitore, e al suo posto sistematene una nuova, di fronte alla tazza del cesso. Dopo aver usato la spatola o la carta, purificatevi così: tenendo il secchio con la mano destra, versate l’acqua nella sinistra e lavatevi tre volte i genitali e le natiche. Seguite queste prescrizioni, e non cercate di versare l’acqua in entrambe le mani né sprecatela spandendola in terra.
Dopo esservi lavati, posate il secchio. Se avete usato una spatola, pulitela e pulite anche la tazza del cesso. Ribassate il koromo e le maniche con la destra; sempre con la mano destra, prendete di nuovo il secchio, cambiate le ciabatte e tornate al luogo in cui ci si lava le mani. Riponete il secchio e dopo aver preso della cenere tra le mani, strofinatele contro le pietre. Mettete quindi un poco d’acqua sulle dita e lavatevi le mani come se foste intenti a ripulire una spada arrugginita. Fate questo per tre volte. Poi mescolate acqua e sabbia e lavatevi ancora tre volte.
Prendete ora un po’ di polvere detergente[15] e, in un piccolo secchio, ripulite del tutto le mani e gli avambracci, in piena concentrazione. Tre volte con la cenere, tre volte con la sabbia, una volta con la polvere detergente; in tutto sette volte, un numero appropriato. Infine, versate dell’acqua in un grande secchio e lavatevi ancora una volta ma senza usare cenere, sabbia o polveri. Cambiate l’acqua in entrambi i secchi e sciacquatevi le mani. L’Avatamsaka Sūtra[16] dice: “Mentre vi lavate le mani in un catino d’acqua, dedicate un pensiero benevolente a tutti gli esseri senzienti. Con mani pure, prostratevi davanti alla Legge del Buddha.”
Tenete il mestolo con la destra, e non fate rumore nell’usare questo attrezzo, o il catino. Non spandete l’acqua né la polvere detergente; non bagnate il terreno circostante e non lasciate mai gli attrezzi sparsi disordinatamente. Asciugate le mani con l’asciugamano e sciogliete i lacci che trattengono il vostro vestito, posandoli sull’asta. Dopo aver fatto gasshō, slegate il telo e indossate il vestito. Prendete quindi delle pallottoline d’incenso a forma di bulbo, larghe circa un pollice e lunghe quattro, e dirigetene il fumo sul vostro corpo. Legate quindi due pallottoline ad un laccio sottile e lungo circa un piede, e appendetele all’asta. Ponete dell’incenso tra le mani e sfregatele, profumandole con la sua fragranza.
Accertatevi di non aver mischiato i vostri lacci con quelli di altri, né di averli abbandonati disordinatamente. Manifestare questa diligenza è ornare e purificare la terra-di-Buddha. Fate questo di tutto cuore; non siate trascurati né pigri. Non agite precipitosamente. Recandovi al gabinetto tenete a mente le parole: “La Legge del Buddha non è predicare agli altri; la Legge del Buddha è costituita dalle azioni quotidiane.”[17]
Non fissate in volto i monaci che si recano al gabinetto. Nel corridoio c’è un posto per sciacquarsi le mani. Poiché l’acqua calda crea alle volte problemi intestinali, è meglio usarla tiepida. Davanti al gabinetto dovrebbe essere collocato un bricco con il quale scaldare l’acqua. Lo Zen’en-shingi[18] afferma: “Il monaco incaricato del gabinetto attende al riscaldamento dell’acqua e alla preparazione della lampada per la notte; inoltre, egli controlla che i monaci mantengano il corretto atteggiamento.” È consentito l’uso di acqua sia calda, sia fredda. Se il corridoio si sporca, chiudetene l’accesso e collocate un segnale d’avviso. Questo anche qualora si fosse accidentalmente rovesciato un secchio d’acqua. Quando sulla tabella c’è un avviso, non entrate nel gabinetto. Se nel corridoio c’è qualcuno che annuncia la sua presenza con lo schioccare delle dita, velocemente dovreste andarvene.
Lo Shingi afferma: “Se non vi siete purificati non potete accedere allo Zendō[19] o prostrarvi ai Tre Tesori,[20] e nemmeno ricevere inchini da altri.”
Nel Sanzen Igigyo è scritto: “Se non vi purificate dopo aver usato il gabinetto, trasgredite alle regole. Le vostre prostrazioni sono contaminate, anche se il cuscino si cui sedete è puro. Prostrazioni simili non vi consentiranno mai di raggiungere felicità e virtù.” Nel dōjō[21] dovete dunque seguire strettamente le procedure descritte. Come possiamo permetterci di non poter più fare le prostrazioni ai Tre Tesori e di non poter ricevere gli inchini di altri?”
Il luogo in cui i Buddha e i Patriarchi si addestrano sulla Via possiede questo stile. Dunque, tutti i monaci dovrebbero mantenere il medesimo comportamento e questo in maniera naturale, senza bisogno di incitamenti. Tale è il comportamento quotidiano dei Buddha e dei Patriarchi, e non solo in questo mondo; è l’attività di tutti i Buddha nelle dieci regioni dell’Universo, tanto nel mondo della sofferenza, quanto nella Pura terra.
La gente con un’insufficiente comprensione ritiene che i Buddha, quando usano il gabinetto, non seguano una prassi particolare e pensa che il metodo utilizzato dai Buddha, in questo mondo, sia differente da quello usato dai Buddha nella Pura terra. Chi abbia veramente compreso la Via del Buddha non la pensa così. Purezza e impurità, caldo e freddo appartengono alla discriminazione della gente comune, questo dovremmo saperlo. Tutti i Buddha esercitano il giusto modo di utilizzare il gabinetto.
Il quattordicesimo precetto del Vinaya dice: “Una volta Rāhula fu trovato nascosto nel gabinetto di Śākyamuni. Tutti i monaci lo rimproverarono mentre il Buddha, benché consapevole del suo errato comportamento, gli batté sulla spalla, con la destra, e recitò questi versi:
“Non hai rinunciato al mondo a causa della povertà,
né perché hai perso prestigio o ricchezze.
Hai rinunciato per ricercare la Via. Perciò, ora,
devi sopportare tutte le avversità e le sofferenze.”
Possiamo dunque vedere che, anche nel gabinetto, i Buddha si addestrano sulla Via. Il loro comportamento nel gabinetto è quello della purificazione, come è stato trasmesso da Patriarca a Patriarca. Il comportamento dei Buddha è seguire gioiosamente tutti i precetti; rispettando i precetti possiamo trovare la vera Via del Buddha, che è difficile da individuare. Inoltre, il Buddha Śākyamuni istruì Rāhula nel gabinetto, e ora tutti noi siamo grati per quell’insegnamento. Anche il gabinetto è un posto in cui far girare la ruota della Legge e mantenere il comportamento proprio della Via; proprio questa è la corretta trasmissione dei Buddha e dei Patriarchi.
Nel capitolo trentaquattresimo del Makasogiritsu,[22] è detto: “Il gabinetto non dovrebbe essere posto né a oriente né a nord, bensì dovrebbe essere costruito a sud, o a occidente. La stessa cosa vale per l’orinatoio.”
Dobbiamo seguire questa prescrizione perché è il modo in cui erano costruiti i templi in India, all’epoca di Śākyamuni. Queste regole di edificazione non erano in uso solo ai tempi del Buddha Śākyamuni, ma lo erano anche al tempo degli altri sette Buddha del passato. Tutti i dōjō e i monasteri dove si addestrano i Buddha sono così. Śākyamuni non è stato il primo a utilizzare queste regole; esse sono state seguite da tutti i Buddha. Non costruite dei templi prima di aver compreso questo, perché commettereste diversi errori; la Via del Buddha non sarebbe conseguita, né si manifesterebbe il supremo risveglio del Buddha.
Per costruire un vero dōjō dovreste seguire le procedure prescritte, in accordo alla corretta trasmissione dei Buddha e dei Patriarchi. Allora, la virtù dei Buddha e dei Patriarchi si accumula e cresce. Se non siete l’erede nel Dharma dei Buddha e dei Patriarchi, non conoscete corpo e mente del Dharma; se non conoscete corpo e mente del Dharma, non potete chiarire la Legge buddhistica del karma.
La Legge del Buddha Śākyamuni, trasmessa da un capo all’altro dell’Universo, è realizzata come corpo e mente-di-Buddha. La realizzazione del corpo-di Buddha e della mente-di-Buddha è il giusto momento per purificarci.
Trasmesso ai monaci nel Kannondōri-Koshōhōrinji, Kuni di Yamashiro, nell’Uji-gun , il 23 ottobre 1242.
[1] Il Maestro Daikan Enō (638-713), successore del Maestro Daiman Kōnin. Spesso è chiamato semplicemente Sesto Patriarca o Sōkei, dal monte su cui dimorava. [Ta-chien Hui-neng]
[2] Il Maestro Nangaku Ejō (677-744), uno dei successori del Maestro Daikan Enō. [Nan-yüeh Huai-jang]
[3] Il Sūtra delle Tremila Forme Dignificate. Si tratta di un’opera della scuola Tendai che illustra le diverse regole monastiche e fornisce chiarimenti su tutti gli aspetti comportamentali della vita di un monaco.
[4] Un bu misura circa 3 millimetri.
[5] Uno ts’un equivale a tre centimetri.
[6] Lett. “Ufficio orientale”.
[7] Lett. “Palazzina laterale”.
[8] Lett. “Latrina”.
[9] Un telo di stoffa, una specie di asciugamano.
[10] Due tipi di biancheria intima.
[11] Lett. “Con il palmo delle mani unito”. Si tratta di un saluto tradizionale, nei monasteri. Le mani giunte sono tenute all'altezza del petto, con la punta delle dita grossomodo allineata con le narici.
[12] Un legaccio o cintura molto sottile, che permette di rimboccare le maniche del koromo, lasciando libere le braccia.
[13] Si tratta del Ch’anyüan Ch’ing kuei (Criteri per monasteri Zen), un testo scritto nel 1103 dal Maestro Chōro Sōsaku (?) [Ch’ang-lu Tsung-tse]
[14] Dal sanscrito kāsāya, tradizionalmente indica l’abito del Buddha. È indossato sopra l’abito (koromo), lasciando scoperta la spalla destra.
[15] Si tratta di una polvere ottenuta da bacelli vegetali (Gleditia Japonica).
[16] Il Sūtra della Ghirlanda.
[17] Parole del Maestro Jōshū Jūshin (778-897). [Chao-chou Ts’ung-shen]
[18] Si tratta del Ch’anyüan Ch’ing kuei (Criteri per monasteri Zen), un testo scritto nel 1103 dal Maestro Chōro Sōsaku (?) [Ch’ang-lu Tsung-tse]
[19] La Sala del Dharma.
[20] Buddha, Dharma, Samgha.
[21] Lett. “Luogo della Via”. Indica un luogo dedicato allo studio ed alla prassi.
[22] Precetti per il Grande Samgha. Si tratta di una raccolta di regole disciplinari della scuola Mahasamghica (antica scuola Hīnayāna), tradotte in cinese da Bhuddhabhadra, tra il 3° ed il 4° secolo d.C.