A cominciare dalla pubblicazione de “Il declino dell’Occidente” di Spengler e dall’affermazione “Dio è morto” di Nietzsche, i fondamenti spirituali della società occidentale hanno conosciuto un continuo subbuglio. Vi è stato infatti chi, come Ludwig A. Feuerbach, volle porre in disparte la teologia a favore di una religione completamente umanistica. Inoltre, la rapida espansione della tecnologia e della conoscenza scientifica non hanno portato tutte le risposte che cercavamo ma hanno, piuttosto, creato vari problemi ben più difficili e complessi come l’esplosione demografica, la scarsità di cibo e di risorse naturali e, non ultimo, l’inquinamento e la distruzione dell’ambiente.
In maggior parte, questi problemi nascono dal fatto che l’avanzamento tecnologico, assieme allo sviluppo della civiltà, hanno distrutto l’equilibrio dell’ecosistema mondiale. Senza esagerare possiamo affermare che un tale scompiglio influisce in modo negativo sulla vita interiore degli esseri umani ed è causa di molte serie crisi spirituali. Di conseguenza, dovremmo sforzarci di creare una nuova cultura con differenti valori etici, cioè che sia basata sull’armonia spirituale e fisica del nostro sistema di vita, e poi di ristabilire la corretta osservazione della natura del mondo (si veda la Legge buddhistica dell’Origine da Precedenti o Paticca Samuppāda1).
Credo fermamente che l’interpretazione del Dharma da parte di Dōgen Zenji sia la più completa e che il suo “Shikantaza”2 sia il modo migliore per noi di dare conforto alla vita umana. Come saprete, la Vera Legge ebbe inizio in India, si sviluppò in Cina, come Dharma del Buddha e dei Patriarchi, e con lo Shōbōgenzō3 del Maestro Dōgen Zenji raggiunse il culmine. In questo lavoro si cristallizzò la Via, e per più di settecento anni esso é stato l’influenza spirituale dominante nella cultura giapponese. Il mondo dello Shōbōgenzō è certo uno studio estremamente profondo, colmo di insuperata esperienza religiosa, e illumina il pensiero giapponese come una perla brillante. Questo sublime lavoro ha attirato l’attenzione di molti studenti stranieri ma, data la sua sottile e difficile natura, non è stato largamente studiato come altri classici del Buddhismo.
Per la mia missione in Europa, sto portando avanti la lettura dello Shōbōgenzō, sia in inglese che in francese. Ho già pubblicato a Parigi la traduzione di alcune parti dello Shōbōgenzō con i miei relativi commentari; è tuttavia molto difficile poter ottenere un buon lavoro senza l’aiuto di validi collaboratori. Ora, grazie agli sforzi di Kōsen Nishiyama, docente del Tohuku College of Social Welfare, e del suo collaboratore John Stevens, si è arrivati ad una traduzione completa in lingua inglese. Questa traduzione è per me di grande valore nell’aiutarmi a stabilire una reale prassi dello Zen tra i miei molti studenti, qui in Europa.
Lo Shōbōgenzō ha l’abilità di nutrire e di raffinare il cuore umano e rappresenta un eccellente livello ed esempio di etica. Ecco la ragione per questa pubblicazione, e incoraggio chiunque a farne uso nel suo studio.
Una piccola capanna, nascosta
tra i monti.
La Via non ancora perfettamente
raggiunta.
Anche sulla più alta cima di questo
splendido monte,
lo sporco e la polvere di questo mondo.
Invoco l’aiuto del Tathāgata.
(dal Sanshōdōei)4
Lo Shōbōgenzō è una raccolta di discorsi e saggi tenuti o scritti, in giapponese, da Dōgen Zenji nel periodo che va dal 1231 al 1253, anno della sua morte. Si tratta di un’opera veramente monumentale basata sull’insuperabile esperienza religiosa di Dōgen e sulla sua impareggiabile interpretazione dell’Insegnamento del Buddha.
Come ricorda lo stesso titolo, i discepoli consideravano i discorsi e i saggi di Dōgen un tesoro della corretta osservanza della vera Dottrina. Oggi la sua opera ha attirato l’attenzione di molti occidentali, ed egli continua ad occupare un posto centrale nel pensiero buddhistico contemporaneo, essendo altamente stimato dalle diverse scuole.
La vita di Dōgen può essere divisa in cinque periodi. Il primo periodo comprende la sua giovinezza e l’iniziale esperienza della natura transitoria di questo mondo; il secondo, l’ingresso nel sacerdozio, all’età di tredici anni e il periodo di studio e prassi sul monte Hiei; il terzo, il viaggio in Cina e lo studio e realizzazione della Via sotto il Maestro Tendō Nyojō;5 il quarto, il ritorno in Giappone e la fondazione del monastero di Kōshōji a Uji, nei dintorni di Kyōto, il primo monastero Zen indipendente in Giappone; il quinto periodo infine, che culmina con la costruzione del monastero di Eiheiji, nella prefettura di Fukui.
Dōgen nacque nel distretto sud-orientale di Kyōto, allora chiamato Kimata, nel 1200. Il padre, Kuga Michi’chika, fu un personaggio centrale nella confusa storia di quel periodo. Potente aristocratico e membro del ramo Murakami del clan Genji, fu pesantemente coinvolto nei numerosi intrighi e battaglie tra la corte ed il nascente Shogunato di Kamakura. Nel 1198 il nipote di Michi’chika fu insediato quale imperatore, col nome di Tsuchimikado. Michi’chika divenne reggente, assumendo il controllo della Corte. Morì tuttavia improv-visamente nel 1202, all’apice del potere, probabilmente assassinato dai suoi stessi rivali.
Si dice che la madre di Dōgen fosse Ishi, terza figlia di Fujiwara Motofusa. In origine essa era la moglie di Kisoyoshiyaka, un influente uomo di corte, ma quando questi fu esiliato, Motofusa la offrì a Michi’chika, suo cognato, come concubina.
Dōgen, quando il padre morì, aveva solo due anni e dovette trasferirsi con la madre in una casa alla periferia di Kyōto. Lì la sua vita fu solitaria e triste; nell’inverno del suo ottavo compleanno, la madre morì. Nell’osservare il filo di fumo dell’incenso durante il funerale della madre, il giovane orfano percepì la natura transitoria di tutte le cose. Fu in quel momento che si risvegliò in lui la determinazione di trovare la vera Via; i suoi genitori erano scomparsi ed egli era ora deciso a superare questo effimero mondo di sofferenza e piacere, di gioia e tristezza.
Prima di morire, la madre disse a Dōgen di farsi monaco, di pregare per i suoi genitori, e di operare per la salvezza di tutti gli esseri senzienti. La morte della madre e la prima esperienza della fugace natura di questo mondo, furono probabilmente gli avvenimenti decisivi della sua vita. In seguito, la sua determinazione nel trovare la Vera Via e nel conseguire il risveglio, non vacillò mai.
Dopo la morte della madre, Dōgen andò a vivere con Michitomo, il fratellastro di Michi’chika. Questi era un celebre compositore di waka6 ed introdusse Dōgen nel mondo della poesia, mondo al quale egli rimase affezionato per tutta la vita. All’età di nove anni cominciò a studiare i sūtra e i commentari buddhistici. La sua determinazione aumentava di giorno in giorno e, appena dodicenne, fece visita a suo zio Ryōkan, fratello della madre ed influente aristocratico, per chiedere il permesso di entrare in monastero. Lo zio, molto dispiaciuto, tentò di dissuaderlo ma, vista l’irremovibilità di Dōgen, alla fine acconsentì. Dōgen fu condotto in piccolo tempio, alle falde del monte Hiei, e presentato all’Abate Jien. Poco dopo, fu nominato un nuovo abate, Kōen, che impartì a Dōgen i precetti del Bodhisattva. Era il il 9 aprile dell’anno 1213.
Dōgen si immerse nello studio degli aspetti essoterici ed esoterici della scuola Tendai ed imparò i diversi precetti e regole monastiche. Fino dall’inizio del suo studio, tuttavia, si imbatté in un punto che gli pareva insolubile: “Sia le scuole essoteriche che quelle esoteriche, insegnano che tutti gli esseri possiedono la Natura di Buddha e l’Illuminazione Originaria. Se è così, perché tutti i Buddha dei tre mondi risvegliarono la ‘Mente che cerca il Buddha’ e cercarono il risveglio attraverso la prassi?” Nessuno, sul monte Hiei, seppe rispondere in modo soddisfacente alla domanda del giovane Dōgen. Inoltre, egli era indignato per l’avarizia dei monaci e per i loro continui battibecchi; egli decise così di lasciare il monte Hiei e cercare altri maestri.
Giunse quindi al monastero di Miidera dove incontrò l’Abate Kōin (1145-1216), un famoso studioso che aveva di recente abbandonato l’intellettualismo e le astratte dottrine della scuola Tendai per la semplice fede della Pura Terra. Kōin consigliò a Dōgen di far visita al Maestro Eisai (1141-1215) a Kenninji; questi era da poco tornato dalla Cina ed insegnava il metodo Rinzai Zen.
Non è chiaro ciò che Dōgen fece in seguito. Secondo una fonte biografica, Dōgen si recò immediatamente da Eisai; da un’altra fonte biografica,7 risulta invece che egli visitò il Kenninji solo quattro anni più tardi e non si menziona alcun incontro con Eisai. Tuttavia, sembra che Dōgen abbia veramente incontrato Eisai, rimanendo impressionato dalla sua forte personalità e dall’accento da lui posto sopra l’esperienza pratica del Dharma, piuttosto che sulla profondità filosofica o sullo studio scolastico. Si accese così in Dōgen l’interesse per lo Zen e si rafforzò il desiderio di studiare in Cina, desiderio già presente fin dall’inizio della sua vita monastica.
Myōzen (1184-1225) fu nominato abate poco dopo, e Dōgen divenne suo allievo. A quell’epoca, a Kenninji si insegnavano sia le dottrine essoteriche ed esoteriche, sia la prassi dello zazen8 che Eisai aveva introdotto dalla Cina. Lo stesso Myōzen era un maestro degli insegnamenti essoterici ed esoterici, e aveva ricevuto da Eisai i precetti Tendai e quelli Zen.
Quando Dōgen lo incontrò per la prima volta, Myōzen aveva solo trentaquattro anni e tra i due si sviluppò un caldo rapporto. Dōgen continuò a studiare tutti i rami dell’insegnamento del Buddha e si diceva che, durante la sua permanenza a Kenninji, avesse letto per due volte l’intero Tripitaka9 anche se era sempre più attratto dalla prassi dello Zen e dal relativo metodo di risveglio. Successe in quel periodo che molti dei parenti di Dōgen fossero uccisi o esiliati; ciò, indubbiamente rafforzò la sua percezione della natura transitoria di fama, ricchezza e posizione sociale, rendendolo più deciso che mai a ricercare la vera Legge, intesa come vera dottrina, insegnamento e metodo.
Al maturarsi di questi fatti, Dōgen chiese a Myōzen il permesso di recarsi in Cina; non solo Myōzen acconsentì, ma decise anche di accompagnarlo in questo viaggio. Nello Shōbōgenzō Zuimonki, una raccolta di discorsi informali di Dōgen, registrata dal suo discepolo principale Ejō, vi è un famoso racconto circa questa sua decisione. Il Maestro di Myōzen, Myōyu (?), si ammalò gravemente proprio nel momento in cui Myōzen e Dōgen stavano per imbarcarsi, e chiese loro di rimandare il viaggio. Myōzen riunì tutti gli allievi e chiese quale fosse la loro opinione. Tutti, compreso Dōgen, gli consigliarono di rinviare il viaggio. Myōzen, invece, disse loro:
“Anche se rimanessi, ciò non prolungherebbe la vita di quest’uomo morente. Anche se mi prendessi cura di lui, non potrei porre fine alla sua sofferenza. Anche se lo confortassi sul suo letto di morte, non potrei far nulla per aiutarlo a sfuggire dal ciclo di vita e morte … Ciò non sarebbe di alcuna utilità per la mia rinuncia al mondo ed al raggiungimento della Via, e potrebbe perfino condurre a cattive azioni, interferendo con la mia determinazione di cercare il Dharma. Invece, se procedo nel progetto di recarmi in Cina e lì raggiungo anche soltanto una piccola traccia del risveglio, ecco che ciò sarà di beneficio per molti ... Perdere tempo prezioso a beneficio di una sola persona, non è la Via del Buddha. Perciò partirò per la Cina, come ho deciso”. Dōgen provò ammirazione per la ‘Mente che cerca il Buddha’ di Myōzen e per la sua determinazione; entrambi erano ben decisi a proseguire la loro prassi in Cina.
Il 22 febbraio del 1223, Dōgen, Myōzen e altri due monaci lasciarono il Kenninji per il porto di Hataka, nel Kyushu. Il viaggio da Hataka alla Cina fu difficoltoso e disturbato da numerose tempeste e mareggiate. Dōgen fu colpito da una violenta diarrea e soffrì moltissimo. Giunsero infine al porto di Minshu, nella zona centrale della Cina, all’inizio del mese di aprile. Myōzen lasciò immediatamente la nave e, prima di fermarsi sul monte Tendō,10 fece visita a diversi monasteri. Dōgen, invece, rimase sulla nave per quasi tre mesi, per abituarsi gradualmente al nuovo ambiente e prepararsi ai viaggi che lo attendevano. Egli visitava solo i templi dei dintorni e ritornava sulla nave per la notte. Inizialmente rimase perplesso dalla prima impressione dello Zen cinese. Era deluso per la mancanza di comprensione dei sūtra e dei precetti da parte degli abati locali, oltre che per il loro aspetto esteriore che, ai suoi occhi, appariva del tutto secolare.
Gli accadde tuttavia un giorno, d’incontrare un vecchio cuoco che si recava al porto per acquistare funghi giapponesi. Il suo monastero distava una ventina di chilometri, perciò Dōgen lo invitò a passare la notte a bordo della nave. Dōgen era interessato a quel vecchio monaco e voleva poter parlare ancora con lui. Il monaco invece, gli disse che doveva tornare in serata per adempiere al suo compito di capo cuoco e che, in più, non aveva il permesso di passare la notte fuori dal monastero. Dōgen gli chiese allora perché avesse accettato un compito così pesante come quello di capo cuoco, invece di concentrarsi sullo zazen o sullo studio e la lettura dei sūtra, che sarebbero stati molto più utili e meno difficoltosi. Il vecchio rise e disse: “Mio giovane amico straniero, è chiaro che avete molto da imparare sul vero significato della prassi e delle scritture”. Invitò poi Dōgen a visitare il suo monastero un giorno o l’altro, per sperimentare la vera prassi dello Zen, e così dicendo si accomiatò da lui. A Dōgen questo vecchio monaco sconosciuto parve personificare la vivente tradizione dei Buddha e dei Patriarchi. La sua intera vita, tutte le sue azioni quotidiane erano zazen; infatti “Il contegno, l’etica quotidiana è la Legge del Buddha” diventò un aspetto centrale nell’insegnamento di Dōgen. Ogni nostra azione deve essere espressione del nostro risveglio, e la prassi non può essere separata dalla realizzazione.
Dōgen decise così di andare sul monte Tendō e dare inizio al suo addestramento formale. Il monastero del monte Tendō era uno dei più grandi e famosi templi Zen della Cina; era anche uno dei più severi ed aderiva strettamente a tutte le regole e precetti monastici. Dōgen si addestrò diligentemente ma era ancora incapace di risolvere i suoi dubbi. Inoltre, essendo forestiero, si sentiva in un certo modo estraneo ed era deluso per il livello spirituale generale dei monaci che non era così come se l’era aspettato. Di tutto ciò si lamentò con l’Abate Musai,11 ma naturalmente nulla cambiò. L’abate stesso d’altronde era molto interessato sia al denaro, sia alla propria reputazione personale.
Sebbene Dōgen non riuscisse ad imparare nulla dai cosiddetti monaci principali né dai dotti, continuava a trovare la vera prassi dello Zen nei monaci meno conosciuti e più umili. Gli capitò di incontrare nuovamente il vecchio capo cuoco,12 ed ebbe l’occasione di conoscere un altro vecchio monaco che persisteva nell’eseguire i lavori che gli assegnavano, indipendentemente da quanto fossero noiosi o difficili. Una volta di più Dōgen comprese che il lavoro fisico è la chiave per la prassi. L’autentica realizzazione, la realizzazione del non-sé, deve essere basata e fondarsi sulla vita pratica di ogni giorno.
Dōgen fu testimone di vari esempi di umili e sconosciuti monaci i quali trasmettevano la Mente del sesto Patriarca. Inoltre, vide che la Via dei Buddha e dei Patriarchi deve essere ricevuta da un vero maestro e trasmessa sia nel corpo che nella mente, nel momento presente. È questo il vero significato dello shisho13, il sigillo della trasmissione. La prassi condotta con mente universa, l’adesione ai precetti e l’abbandono di ogni desiderio di fama e di ricchezza, sono assolutamente necessari. Ciò nondimeno, Dōgen non riusciva ancora a raggiungere la liberazione finale di corpo e mente. Lasciò allora il monte Tendō e, ancora una volta, intraprese un pellegrinaggio alla ricerca di una risposta alle sue domande, ma senza alcun risultato. Decise allora di tornare al monte Tendō per incontrare Myōzen; egli era sul punto di abbandonare il suo studio in Cina e di rientrare in patria.
Durante il viaggio di ritorno al monte Tendō, Dōgen ricevette la notizia della morte di Musai e della nomina di Nyojō, su richiesta dell’imperatore, ad abate del monastero del monte Tendō. Dōgen aveva sentito parlare molto bene di Nyojō durante le sue peregrinazioni, ed era ansioso di incontrarlo. Tendō Nyojō14 era un eminente maestro. Egli aveva ricevuto la trasmissione del Dharma del Buddha dalla linea di Seccho Chikan,15 ed era deciso a ristabilire il corretto e tradizionale insegnamento di quel maestro. Insisteva affinché tutti i suoi discepoli si consacrassero completamente alla prassi della Via, ed accettava come allievi solo i postulanti più seri e diligenti. Dōgen gli scrisse una lettera chiedendo il permesso formale di studiare sotto la sua direzione. Nyojō, che aveva sentito parlare della determinazione del giovane forestiero, lo accettò immediatamente.
Il 1° maggio 1225, essi si incontrarono per la prima volta. Nyojō vide subito le potenzialità di Dōgen e paragonò il loro incontro all’incontro di Śākyamuni con Mahākā-śyapa, di Bodhidharma con Eka sul monte Suzan, e a quello di Kōnin con Enō, sul monte Ōbai. Dōgen aveva finalmente trovato il maestro così lungamente cercato e ne era felice. Nyojō era severo ma compassionevole. Contrariamente a quanto in uso nella Cina di allora, egli non permetteva alcun allentamento delle regole, né di abbreviare le ore di zazen. Diceva piuttosto agli allievi: “Se vi manca la giusta determinazione nel cercare la Via, vi addor-mentereste anche abbreviando il tempo; d’altronde, possedendo il corretto atteggiamento e determinazione sarete contenti della opportunità di esercitarvi, al di là di quella che è la durata dello zazen”. Batteva coloro che si addormentavano con il pugno o con la ciabatta, non per cattiveria ma per compassione e per incitarli a distruggere le illusioni e trovare la Via. Nyojō disse a Dōgen di tagliare completamente qualunque attaccamento e di immergersi nella prassi. La mente deve essere duttile e fluida, priva d’attaccamento a qualunque forma, ed in nulla dimorante. Più tardi, una volta tornato in Giappone, qualcuno gli chiese che cosa avesse imparato in Cina: “Non molto” rispose Dōgen “eccetto nyunan shin,16 una mente duttile e flessibile”.
Una notte, durante l’addestramento estivo del 1225, il monaco seduto a fianco di Dōgen cadde addormentato. Nyojō gli gridò: “Lo zazen è lasciar cadere mente e corpo! Perché dormi?” Udendo ciò, Dōgen sperimentò una profonda illuminazione. Più tardi, si recò nella stanza di Nyojō, accese dell’incenso e si prostrò al Maestro. “Perché fai questo?” gli chiese Nyojō. “Sono venuto qui con corpo e mente lasciati cadere” rispose Dōgen. “Ora, lascia cadere corpo e mente!” disse Nyojō, intendendo dire di non farne una idea fissa, e confermò il risveglio di Dōgen. Tutti i dubbi erano svaniti e la sua realizzazione completa. Aveva venticinque anni.
Dōgen continuò ad addestrarsi sotto Nyojō per altri due anni e visitò occasionalmente altri maestri per approfondire, perfezionare la sua comprensione. Nel frattempo, il maestro e amico Myōzen si era ammalato e morì all’età di 42 anni. Dōgen decise allora che era giunto il momento di tornare nella sua terra natale. Era stato in Cina per quasi cinque anni. Prima della sua partenza, Nyojō gli disse che per trasmettere l’illuminazione di Śākyamuni è necessario trascendere ogni idea di passato, presente e futuro, e comprendere che l’illuminazione è sempre presente, proprio ora, e non termina mai. Conferì inoltre a Dōgen il sigillo della trasmissione e disse: “Una volta tornato in Giappone, opera per risvegliare le menti della gente di quel paese. Non vivere vicino alla capitale o con persone ricche e potenti. Evita imperatori, ministri e generali. Stabilisciti tra i monti, lontano dagli affari mondani e dedicati all’educazione dei giovani monaci, anche se tu avessi un solo allievo. Non interrompere la trasmissione che ti ho dato”.
Dōgen lasciò la Cina probabilmente nel mese di agosto del 1227. Tornò, come scrisse nel Eihei Kōroku,17 a mani vuote; non portò sūtra, commentari, immagini né oggetti religiosi. Ciò che portava con sé era il Dharma del Buddha, che aveva ricevuto dal suo Maestro Nyojō. Dopo essere tornato al Kenninji e aver dato sepoltura alle ceneri di Myōzen, cominciò a lavorare al suo primo trattato, il Fukanzazengi.18 In esso delineò gli aspetti teorici e la prassi dello zazen: il Dharma del Buddha è assoluto, universale e onnipervadente; non vi è, in esso, creazione o distruzione, venire o andare. Ancora, discriminando le cose, siamo immediatamente separati dalla Via e persi nella confusione. Lo zazen è l’unione di risveglio e prassi. Seduto ben diritto, abbandona ogni pensiero19 e manifesta la Via. Poiché corpo e mente formano un’unica essenza, prassi e illuminazione non sono due cose diverse. “Lo zazen è l’ingresso di pace e gioia nel Dharma” scrisse, esortando tutti a seguire questa Via utilizzata da tutti i Buddha e Patriarchi. Sfortunatamente, i monaci di Kenninji non erano per nulla ricettivi delle nuove idee di Dōgen. Durante la sua assenza i costumi e la disciplina si erano assai deteriorati e lo spirito di Eisai era ormai estinto. I monaci erano pigri, in preda all’avidità e continuamente coinvolti nelle molte dispute interne all’ordine. Oltre a ciò, Dōgen ricevette la notizia della morte di Nyojō, entrato nel parinirvāna20 il 17 luglio 1228. Dōgen sentiva ora di dover adempiere la sua promessa di addestrare almeno un allievo e non volle più rimanere a Kenninji. Nel 1230 si trasferì in un piccolo eremo chiamato Anyōin, nei pressi di Fukakusa. Qui compose il Bendōwa,21 che si può considerare il primo capitolo dello Shōbōgenzō.
Nel Bendōwa, Dōgen mise in evidenza diversi punti. Ribadì l’opinione che solo lo zazen è il giusto ingresso nella Via del Buddha, così com’è stato trasmesso da tutti i Buddha e Patriarchi. Riaffermò che prassi e risveglio non sono diversi, e cioè che lo zazen non consiste in una serie di passi che conducono al risveglio, poiché la prassi stessa è perfetto risveglio. Confermò inoltre l’uguaglianza e l’intrin-seca natura-di-Buddha di tutte le persone: monaci e laici, uomini e donne, ricchi, poveri, intelligenti e ottusi, non potendo esistere alcuna distinzione del genere nella Legge del Buddha. L’importante è possedere il giusto atteggiamento mentale per cercare la Via. Rifiutò infine, nel Buddhismo dell’epoca, l’insegnamento secondo cui la Legge del Buddha segue tre stadi: la corretta Legge del primo periodo dopo Śā-kyamuni, l’esteriorità della Legge nel periodo successivo, e l’odierno stadio finale, degenerato. Dōgen insegnava che la capacità di raggiungere la Via dipende esclusivamente dalla determinazione e dall’atteggiamento nei confronti della prassi. Ognuno ha in sé il seme della prajnā22 e l’illuminazione è sempre presente, permea il tempo.
Poco dopo il suo arrivo ad Anyōin, visto il crescente numero di monaci e laici, Dōgen dovette trasferirsi in un edificio più grande. Alcuni edifici abbandonati di un tempio chiamato Gokuraku-ji furono riadattati, e Dōgen vi si trasferì nel 1233, attribuendo a questi il nuovo nome di Kannondōriin. Durante l’inverno del 1234, divenne suo allievo Kōun Ejō,23 suo futuro principale discepolo ed erede nel Dharma. Si deve ad Ejō la trasmissione ai posteri degli scritti del Maestro, nonché la trascrizione di molti dei discorsi informali di Dōgen, raccolti più tardi nello Shōbōgenzō Zuimonki, un testo molto popolare per la sua facilità di comprensione. Intanto il numero di allievi e discepoli continuava ad aumentare, e Dōgen decise di costruire un vero dōjō24 in cui studiare la Via. Entro il 1235, raccolte sufficienti donazioni, furono avviati i lavori del nuovo monastero. Il 5 ottobre 1236 si tenne la cerimonia di apertura di quello che sarebbe stato il primo monastero Zen giapponese indipendente, il Kōshō-hōrinji.
Il periodo che va dal 1233 al 1243, fu nella vita di Dōgen il più ricco di frutti. Aveva ormai molti ottimi allievi, largo seguito tra i laici ed un bene avviato monastero, fondato sulle regole della prassi tradizionale dello Zen cinese. Egli esortava tutti i suoi allievi a porre il conseguimento della Via al di sopra di ogni altra cosa. Era molto rigoroso ed esigente, come il suo Maestro Nyojō, e sottolineava spesso la necessità di ravvedersi:
“O Buddha e Patriarchi illuminati dalla Via, abbiate compassione di me e concedetemi di liberarmi da ogni cattivo karma e dalle azioni malvagie commesse in passato. Rimuovete tutti gli ostacoli dal mio studio della Via del Buddha. La virtù della Via riempie il mondo intero; abbiate compassione di me e ricordate che tutti i Buddha e i Patriarchi hanno condiviso la mia condizione. Faccio voto di seguire la vera Via, in modo che anch’io possa essere un Buddha.”25
Dōgen era molto compassionevole, ma in modo diverso da Shinran, suo contemporaneo e fondatore della scuola Jōdō Shin. Per Shinran, la compassione è basata sulla consapevolezza della propria inadeguatezza e sulla dipendenza, per quando riguarda la salvezza, dalla assoluta misericordia del Buddha Amida. Compassione è dunque annunciare agli altri la grande misericordia di Amida e l’inutilità di uno sforzo personale. Dōgen, invece, affermava che la vera compassione è liberarsi dalla compassione: essa deve essere distaccata e basata sulla percezione della vera natura dell’uomo. Questo significa che dobbiamo operare per aiutare gli altri a percepire e manifestare il loro risveglio; questo è il significato di salvezza, per Dōgen. In ogni caso, i vicini monaci del monte Hiei, che non erano né compassionevoli né amichevoli, iniziarono a molestare Dōgen e i suoi seguaci, accusandolo di innovazioni. Nell’estate del 1243 questi assalirono il suo monastero, cercando di appiccare un incendio.
Ovviamente, Dōgen era piuttosto preoccupato per il futuro della sua comunità e per la sicurezza della loro attuale sistemazione. Si ricordò anche dell’avvertimento di Nyojō di non stabilirsi nei pressi della capitale ma in un luogo isolato, lungi dalle tentazioni e dai fastidi del mondo. Così che Dōgen accettò l’invito del suo discepolo laico Hatanō Yoshishige, governatore dell’Echizen,26 che gli proponeva di costruire un monastero sulle terre di sua proprietà. Dōgen abbandonò Kyōto, lasciando il Kōshō-hōrinji, la stessa estate del 1243. Appena giunto a Fukui si stabilì nel piccolo tempio di Kippōji (Yoshiminedera), per circa un anno, durante la costruzione del nuovo tempio, e il 13 luglio 1244 vi fu la cerimonia di apertura del nuovo tempio, chiamato Daibutsuji. Nel 1245 Dōgen ne mutò il nome in Eiheiji, “Tempio della Pace Eterna”, in ricordo del periodo Eihei della storia cinese, epoca in cui il Dharma era penetrato per la prima volta nell’Impero di Mezzo.
Dopo molte difficoltà e contrattempi, Dōgen era finalmente riuscito a creare un monastero permanente in cui la Vera Legge potesse essere divulgata a beneficio di tutti gli esseri senzienti. Questa Legge era, ed è, di là dalle limitazioni di qualsiasi scuola o setta; Dōgen non permetteva che il suo insegnamento fosse classificato come scuola Zen, come pure rifiutava il nome setta Zen Sōtō. Egli ribadiva che “Tutti gli esseri senzienti sono la natura-di-Buddha”, in opposizione al consueto modo di intendere la natura-di-Buddha come qualcosa che si trova all’interno degli esseri viventi e ne costituisce l’essenza, o centro.
Tutti gli esseri stessi, nella loro globalità, sono natura-di-Buddha; esseri senzienti e natura-di-Buddha sono assolutamente inseparabili, caratterizzati da una completa non-dualità. Inoltre non può esserci qualcosa come un’illuminazione graduale, piuttosto che improvvisa. Ogni istante, così come è, contiene la totale illuminazione. Ogni istante è indipendente da passato, presente e futuro: il tempo è essere, l’essere è tempo. “Ogni istante comprende il mondo intero ... ogni singolo oggetto, ogni essere vivente è inseparabile dal tempo. Il tempo comprende ogni essere e tutti i mondi”.27 Queste idee, assieme ai concetti riportati precedentemente, formano l’essenza del pensiero di Dōgen, riflessa nello Shō-bōgenzō.
Nel 1247 Dōgen accettò con riluttanza di far visita al generale Hojō Tokiyori e si fermò per circa sei mesi a Kamakura. Cercando di trattenerlo ulteriormente, Tokiyori si offrì di costruire un tempio per lui, ma Dōgen rifiutò e ritornò alla solitudine di Eiheiji. La salute cominciava a declinare, ma la sua vita continuava ad essere austera come sempre. Pur se le sue condizioni peggioravano gradualmente, continuò ad insegnare ai suoi molti discepoli ed a scrivere finché gli consigliarono di recarsi a Kyōto, per affidarsi a cure mediche. Alcune settimane dopo, Dōgen nominò ufficialmente Ejō suo erede nel Dharma e abate di Eiheiji, e partì per Kyōto.
Nella notte del 28 agosto 1253 entrò nel parinirvāna. Questi furono i suoi versi funebri:
Benché lo Shōbōgenzō sia il suo capolavoro e rappresenti la totalità del pensiero di Dōgen, egli scrisse anche altre opere importanti. Queste sono:
Fukanzazenji, “Promozione Generale dei Principi dello Zazen”.
Gakudōyōjinshū, “Precauzioni per lo Studio della Via”.
Tenzōkyōkun, “Istruzioni all’Attendente di Cucina”.28
Eihei Kōroku: “Osservazioni Generali di Eihei Dōgen”.
Nihon Koku Echizen Eiheiji Chiji Shingi, “Regole per i Monaci Principali nel Monastero di Eiheiji”.
Kichijōzan Eihei Shuryō Shingi, “Regole per gli Alloggi dei Monaci del Monastero di Eiheiji”.
Fushukuhampō, “Regole per Assumere i Pasti”.
Sanshōdōei, “Antologia di Poesie di Dōgen”.
Questa traduzione segue fondamentalmente il metodo utilizzato per la traduzione del testo originale del Maestro Dōgen, in giapponese moderno: una combinazione di traduzione, commento e parafrasi. Infatti una traduzione letterale sarebbe quasi totalmente incom-prensibile, ed una semi-letterale produrrebbe una nuova specie di lingua che, alterna-tivamente, confonderebbe e divertirebbe il lettore. Perciò, mentre gran parte della traduzione segue abbastanza strettamente il testo originale, alcuni passi sono stati parafrasati o interpretati, al fine di renderli comprensibili ai lettori occidentali. Certamente, così facendo si è persa parte della profondità e del vigore dello stile originale, ma ciò era inevitabile.
Data la sua natura estremamente sottile e profonda, qualunque traduzione dello Shōbōgenzō sarà sempre suscettibile a critiche e nessuno meglio dei traduttori è consapevole dei difetti e delle imperfezioni del presente lavoro. Tuttavia, l’intento primo è quello di riprodurre lo spirito del testo originale e la speranza è che la disponibilità di questa tradu-zione possa essere di giovamento e stimolo per tutti coloro che studiano ed investigano con serietà la Via del Buddha.
Nel testo, tutti i nomi giapponesi e cinesi sono stati romanizzati secondo la nostra lingua. Per quanto riguarda le parole sanscrite e le parole giapponesi, queste sono generalmente riportate in corsivo, con i principali segni diacritici. Non sono state riportate in corsivo parole quali karma, nirvāna sūtra, dōjō, sesshin, zazen, kesa, ecc. in quanto di uso ormai consolidato per uno studente del Dharma.
Satori (enlightenment) è stato tradotto con ‘illuminazione’ o ‘risveglio’, mentre la parola Ku (śūnyatā/emptiness) è stata tradotta con ‘vacuità’. Sebbene vi sia qualche dubbio sull’accuratezza di tali parole, sono state adottate in quanto già di uso comune nel Buddhismo Occidentale.
Altre parole o espressioni ben frequenti sono: Gedatsu, (detachment o liberation) che è stato tradotto con ‘non-attaccamento’ o con ‘liberazione’; Genjō, (actualization o manife-station) tradotto con ‘realizzazione’ o ‘manifestazione’ e Shikantaza, (singleminded sitting in zazen) tradotto con ‘sedere in zazen con mente universa’.
Shōbōgenzō, [la cui traduzione letterale è “Il Tesoro del Retto Occhio Dharma”] è stato reso con “L’Occhio e il Tesoro della Vera Legge”. Infine, “Il mio defunto Maestro” è sempre riferito al Maestro cinese Tendō Nyojō (T’ien t’ung Ju-ching, 1163-1228).
Il testo utilizzato per la nostra traduzione [in inglese] è dal Kohonkōtei Shōbōgenzō redatto da Dōshu Okubō (Chikuma Shōbo). Solitamente il numero dei capitoli dello Shōbō-genzō è 95, comprese le varianti dei capitoli Shinfukatoku, Butsukojoji e Butsudō che non abbiamo tradotto. Di conseguenza, la traduzione inglese è composta di 92 capitoli.
Le note presenti nella traduzione inglese sono state inserite a piè di pagina, integrandole con altre note puramente informative, per favorire una maggiore comprensione del testo. Tra le brevi informazioni relative ai Maestri, ove noto, è riportato anche il nome cinese, tra parentesi quadra. Inoltre …
La parola “Dharma” è sempre riferita alla Legge del Buddha; la parola “dharma” significa invece cose, fenomeni.
La parola “sperimentare” in questo contesto, indica un processo di acquisizione di conoscenza che è possibile solo attraverso una diretta esperienza personale, esperienza che coinvolge l’intero corpo e mente.
Lo Shōbōgenzō contiene frequenti riferimenti al Sūtra del Loto. Sebbene le citazioni del Maestro Dōgen si riferiscano con ampia probabilità alla versione cinese di Kumarajiva, nelle note a piè di pagina si è preferito rimandare il lettore ad una traduzione diretta dal sanscrito: il Sūtra del Loto, Rizzoli - BUR Classici, edito nel 2001. Il riscontro di eventuali discordanze tra la citazione nello Shōbōgenzō ed il relativo rimando al Sūtra, è quindi legato alla differenza tra la versione cinese e l’originale sanscrito.
Il testo utilizzato per la traduzione italiana è la versione del Maestro Kōsen Nishiyama, in volume unico, edita dalla Sasaki Printing & Publishing Co. Ltd., prima stampa nel 1988.
1 Vedi cap. 34, Bukkyō.↩
2 Semplicemente seduti in Zazen, con mente universa.↩
3 L’Occhio e il Tesoro della Vera Legge.↩
4 Una raccolta di poesie del Maestro Dōgen.↩
5 La frase fondamentale udita da Dōgen, nel corso del suo studio in Cina, fu: “Corpo e mente lasciati cadere”.↩
6 Dal Mahāparinirvāna Sūtra, cap. 7, Shogyo. Sono versi che il dio Taishaku (Śakradevendra, o Indra) rivela all’asceta Sessen Doji, che non è altro che il Buddha Śākyamuni in una sua precedente esistenza.↩
7 Poesie in cinque versi, di trentun sillabe.↩
8 Rispettivamente, il Kenzeiki ed il Sansogyōgyōki, due ben note biografie del Maestro Dōgen.↩
9 La parola zazen è costituita da due ideogrammi. Za significa “Sedere a gambe incrociate” e zen “Concentrare con calma la mente”.↩
10 I tre canestri dell'insegnamento del Buddha: i Sūtra (i discorsi), il Vinaya (le regole), l’ Abhidharma (i commentari).↩
11 T’ien T’ung, in cinese.↩
12 Wu-chi.↩
13 Dōgen questa volta chiese: “Cosa sono le lettere (i caratteri)?” “Uno, due, tre, quattro” rispose il vecchio. “Cos’è la prassi?” “Nulla è celato, ogni cosa è rivelata” replicò il monaco.↩
14 Lett.: “Certificato della Successione”.↩
15 T’ien T’ung Ju-ching (1163-1228).↩
16 Hsüeh’ t’ou (?-1052).↩
17 Lett.: “Mente soffice”.↩
17 “Osservazioni Generali di Eihei Dōgen”.↩8 19 “Promozione Generale dei Principi dello Zazen”.↩
20 Si riferisce ai pensieri di tipo discriminante come bene, male, illuminazione, illusione, ecc.↩
21 La condizione di completa estinzione, non più soggetta al ciclo delle rinascite.↩
22 Si veda il cap. 88, Bendōwa.↩
23 Prajñā: si tratta della conoscenza intuitiva profonda, trascendente. È la più alta e completa forma di conoscenza, e non ha nulla a che vedere con la conoscenza concettuale.↩
24 1198-1280↩
25 Lett.: “Luogo della Via”. Indica qualsiasi luogo dedicato a prassi e addestramento.↩
26 Vedi cap. 25, Keiseisanshoku.↩
27 L’attuale Prefettura di Fukui.↩
28 Vedi cap. 20, Uji.↩
29 Dōgen-Uchiyama Roshi, “Istruzioni a un cuoco Zen”, Ubaldini Editore.↩