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JISHŌZAMMAI
Il Samādhi del Risvegliarsi da Sé
In questo capitolo dedicato alla prassi come risveglio da sé, il Maestro Dōgen sottolinea l’importanza del seguire un Maestro, dello studio dei sūtra e dello zazen, attraverso la profonda ed equilibrata condizione della mente pacificata. L’insegnamento prosegue poi con la storia di Daie Sōkō e dei suoi rapporti con i Maestri Ummon, Tōzan, Tandō, ed Engo, nel tentativo infruttuoso di ottenere la certificazione del suo presunto risveglio.
La corretta trasmissione di tutti i Buddha e i Patriarchi, dal tempo dei sette Buddha ad oggi,[1] è il samādhi di prassi e illuminazione, cioè: seguire il giusto maestro e studiare i sūtra. Questa è la visione illuminata dei Buddha e dei Patriarchi. Perciò, il vecchio Buddha Sōkei chiese ad un monaco: “Perché cerchi prassi e risveglio?” Il monaco rispose: “Prassi e risveglio non sono non-qui, ma non possono essere conseguite finché sussiste qualche impurità.” Dovremmo dunque sapere che l’incontaminata prassi e illuminazione è i Buddha e i Patriarchi. Il samādhi dei Buddha e dei Patriarchi è brina e grandine, vento e lampi.
Quando seguiamo il giusto maestro, talvolta vediamo metà del nostro volto e corpo, talaltra vediamo l’intero corpo e volto. Talvolta vediamo metà di noi stessi e metà degli altri. A volte un maestro si manifesta sotto forma di un dio peloso,[2] altre volte come dèmone cornuto.[3] Siamo messi di fronte a vari tipi di comportamento e le personalità mutano in modo inatteso. Possiamo sperimentare questo in numerose occasioni. La ricerca del Dharma è condotta per interi kalpa; questo è il vero scopo dello studiare sotto un maestro. Incontriamo il nostro sé reale e la nostra vera forma: Śākyamuni ammiccò e Mahākāśyapa sorrise, Eka ricevette il midollo dell’insegnamento di Bodhidharma e si prostrò, dopo essersi tagliato un braccio.
Parlando in generale, dai tempi dei sette Buddha fino a quelli del sesto Patriarca, studiando sotto un maestro, non era un caso raro avere l’occasione di vedere se stessi; e vedere gli altri non è cosa soltanto del passato o solo del presente.
Studiando i sūtra studiamo la nostra stessa pelle, carne, ossa e midollo. Quando lasciamo cadere pelle, carne, ossa e midollo, sorge la visione illuminata dei fiori di pesco, ed il suono di una tegola che colpisce un bambù ci permette di vedere e di udire, chiaramente, la brina e la grandine. Nello studiare i sūtra, il loro significato dovrebbe apparire chiaramente. ‘Sūtra’ è il sūtra dell’intero Universo, è montagne, fiumi, terra, erba, alberi, sé e altri, è il consumare i pasti e vestirsi, è il lavoro quotidiano. Quando studiamo la Via fondata su questi sūtra, innumerevoli sūtra sono rivelati.
Le lettere che compongono questi sūtra sono quelle reali. Allo stesso modo, si possono trovare dappertutto poesie non scritte. Possedere una simile comprensione consente di studiare con corpo e mente, e di vivere innumerevoli esistenze, durante un incalcolabile numero di kalpa. Dunque, possiamo sicuramente giungere al giusto grado di comprensione. Studiare con corpo e mente interi ci porta al di là del tempo e di sicuro potremo godere i frutti del nostro sforzo.
Sono stati tradotti, dal sanscrito in cinese, circa cinquemila testi indiani, relativi ai tre e ai cinque veicoli, e alle nove e dodici suddivisioni.[4] Dobbiamo studiare questi testi e, poiché non possiamo evitare di seguire questi sūtra, essi diverranno la nostra visione illuminata e il nostro midollo. Dalla testa alla coda, ogni cosa è vera e corretta. Talvolta la ricevete dagli altri, talaltra la date agli altri; è l’attività della visione illuminata che lascia cadere il sé e gli altri. Poiché la visione illuminata e il midollo non dipendono da sé o da altri, la corretta trasmissione dei Buddha e dei Patriarchi è proseguita dai tempi antichi, fino ad oggi.
C’è un sūtra del lungo bastone, che liberamente proclama e che infrange ogni discriminazione tra vacuità ed esistenza. C’è un sūtra dello scacciamosche, che purifica neve e brina. C’è un sūtra dello zazen, che è proclamato in ogni sessione di zazen, e c’é un sūtra del kesa, in un solo capitolo, che racchiude in sé dieci volumi. Tutti questi sono protetti dai Buddha e dai Patriarchi.
Prassi e risveglio si conseguono seguendo l’insegnamento di questi sūtra. Appaiono diversi volti: umani, divini, solari, lunari, e appare il significato del seguire l’insegnamento dei sūtra. In definitiva, seguire il giusto maestro e l’insegnamento dei sūtra significa seguire il proprio sé. I sūtra stessi sono il nostro sé in forma di sūtra, così come i giusti maestri sono il nostro sé nel suo essere giusto maestro. Dunque, lo studio e la prassi sotto un giusto maestro sono lo studio e la prassi di se stessi. Sollevare cento erbe o diecimila alberi è sollevare se stessi. Fate chiarezza sul fatto che, indubbiamente, siamo noi stessi l’oggetto ultimo del nostro studio e prassi. In questo studio il sé egoico è lasciato cadere e l’essere originario emerge.
È per questo che, nella grande Via dei Buddha e dei Patriarchi, esiste un metodo per addestrarsi basandosi su se stessi, e per risvegliarsi da sé. Se non ci fosse stata la corretta trasmissione da parte dei Buddha e dei Patriarchi, nemmeno il giusto Dharma avrebbe potuto essere tramandato. Esiste una corretta trasmissione da maestro ad allievo; se essa non è le ossa e il midollo dei Buddha e dei Patriarchi, non può essere tramandata correttamente. È studiando in questo modo che possiamo dire: “Tu possiedi il mio midollo” o “Possiedo l’Occhio e il Tesoro della Vera Legge e questo ora io trasmetto a Mahākāśyapa.”
Proclamare la Legge non dipende da sé o da altri e proclamarla agli altri è proclamarla a se stessi; allora, il sé degli altri e il nostro proprio sé ascoltano insieme. Un orecchio ode, l’altro proclama; una lingua proclama, una lingua ascolta. Questo dovrebbe essere valido per ognuno dei sei organi sensoriali. Inoltre, è mediante corpo e mente che possiamo addestrarci e raggiungere il risveglio. L’orecchio e la lingua stessi odono il loro proprio proclamare. Se ieri la Legge dell’impermanenza è stata proclamata per gli altri, oggi lo è per noi stessi.
Così trascorrono i giorni ed i mesi. Proclamare il Dharma agli altri e metterlo diligentemente in atto, è udire, chiarire e illuminare il Dharma, esistenza dopo esistenza. Quando, durante questa esistenza, proclamiamo il Dharma agli altri con mente sincera, ci è anche facile conseguire il Dharma per noi stessi. Inoltre, quando studiamo sia con la mente sia con il corpo, favorire gli altri nell’udire il Dharma aumenta il nostro merito. Disturbare gli altri mentre stanno cercando di udire il Dharma è impedire a noi stessi di udirlo. Udire e proclamare il Dharma, vita dopo vita, esistenza dopo esistenza, è udire il Dharma, mondo dopo mondo. Nella nostra attuale esistenza possiamo ascoltare il Dharma che è stato trasmesso fino a noi dal passato.
All’interno del Dharma vi è creazione e vi è distruzione; e così, correttamente trasmettendo il Dharma nelle dieci direzioni dell’Universo, possiamo udirlo vita dopo vita e metterlo in atto esistenza dopo esistenza. Poiché il Dharma è realizzato vita dopo vita e manifestato esistenza dopo esistenza, un granello di polvere e l’intero campo dell’esistenza, insieme, illuminano il Dharma. Tuttavia, anche se ne udissimo una sola parola ad est, dovremmo proclamarla ad ovest, fosse anche ad una sola persona. Proprio quella persona potrebbe utilizzare questa possibilità per proclamare, a sua volta, il Dharma.
Prassi e illuminazione sono le stesse sia in oriente, sia in occidente. Cercate di avvicinare quanto più possibile a corpo e mente sia il Dharma del Buddha sia la Via dei Patriarchi; allora la vostra vita sarà colma di gioia, speranza e determinazione. Cominciate proprio da questo istante, da oggi, da quest’anno, da questa vita. Questo è il vostro compito. Afferrate la vita del Dharma del Buddha e concentratevi su di essa. Questo significa non sprecare la vostra vita.
Non pensate, tuttavia, di non poter proclamare il Dharma solo perché non l’avete ancora completamente chiarito. Se attendiamo di averne una comprensione totale, saranno necessari innumerevoli kalpa.[5] Inoltre, anche conoscendo a fondo il Buddha umano, dobbiamo ancora chiarire il Buddha universale. Pur riuscendo a fare chiarezza sulla mente delle montagne, dobbiamo chiarire la mente dell’acqua. Se siamo in grado di afferrare gli aspetti viventi del karma, poi dobbiamo anche coglierne gli aspetti non-viventi. Dobbiamo comprendere profondamente ogni fatto relativo alla vita dei Buddha e dei Patriarchi, comprendendone anche il susseguirsi. Dunque, se pensiamo di dover chiarire completamente tutti questi punti in una sola esistenza, prima di proclamare il Dharma ad altri, è solo perché non abbiamo riflettuto e studiato a sufficienza, e perché non abbiamo coraggio.
Coloro che studiano i Buddha e i Patriarchi, investigando un solo Dharma o un solo oggetto, dovrebbero sviluppare una forte determinazione, sforzandosi di aiutare gli altri. Allora saranno capaci di trascendere se stessi e di predicare alla gente. Inoltre, è possibile aiutare gli altri a completare il loro studio anche se non si è terminato il proprio. È ovvio che se sappiamo aiutare gli altri a completare lo studio, sapremo anche aiutare noi stessi. Benché possiamo comprendere questo punto in modo innato, non possiamo farne l’esperienza finché non incontriamo il giusto maestro. Per questo motivo, finché non abbiamo incontrato il giusto maestro né realizzato la nostra conoscenza innata, non possiamo comprendere quale sia la natura dell’immutabile conoscenza, né l’eterna conoscenza, al di là della conoscenza.
Pure se è possibile affermare che tutti noi possediamo la conoscenza innata, non si può conoscere la grande Via dei Buddha e dei Patriarchi senza un adeguato studio. Conoscere e comprendere se stessi e gli altri, è la grande Via dei Buddha e dei Patriarchi. La determinazione iniziale allo studio si manifesta, contemporaneamente, in se stessi e negli altri. A partire da questa decisione preliminare, noi e gli altri, assieme ci addestriamo e assieme conseguiamo lo stadio finale. La vostra prassi e la prassi degli altri è in questo modo che devono progredire.
Gli stolti, tuttavia, sentendo parlare della Via in cui ci si risveglia da sé o in cui da sé si consegue l’illuminazione, pensano che sia sufficiente studiare da soli senza ricevere la trasmissione da un vero maestro. Questo è certo un grande errore. Se, conoscendo la natura della mente e le possibilità di discriminazione, pensiamo che non sia necessario ricevere la trasmissione da un maestro, significa che siamo simili alla gente comune ed ai filosofi naturalisti dell’India.[6] Se comprendiamo questo rettamente, come possiamo pensare che costoro siano seguaci della Via? Inoltre, se consideriamo il risvegliarsi da sé come qualcosa di dipendente dall’aggregarsi dei cinque skandha,[7] ci troviamo su una posizione vicina all’educarsi da sé degli studenti Hīnayāna. Una gran parte di coloro che non discriminano tra Mahāyāna e Hīnayāna si considerano discendenti dei Buddha e dei Patriarchi. Ma come possono costoro, ingannare gente con le idee chiare?
Nel periodo Shōkō[8] della dinastia Sung, visse un Maestro Zen noto come Daie Sōkō,[9] del Kinzan. Egli era in origine uno studioso dei sūtra e dell’abhidharma;[10] in seguito viaggiò per tutto il Paese e cominciò a studiare i commenti ed i versi di Ummon e Secchō, sotto il Maestro Zen Myōkyō,[11] del Senshū.
Prima di aver completato lo studio della scuola di Ummon, Sōkō passò a studiare sotto il sacerdote Dōchō,[12] del Tōzan, senza pe-rò essere in grado di riceverne l’intimo insegnamento. Dōchō era l’erede nel Dharma di Fuyō,[13] un Maestro neppure paragonabile ai suoi contemporanei. Sōkō studiò sotto Dōchō per un certo periodo, ma non era capace di trovare la pelle, carne, ossa e midollo del suo Maestro né, tantomeno, di ottenere la visione illuminata all’interno di un granello di polvere.
Un giorno Sōkō, che aveva solo sentito parlare della modalità di trasmissione del Dharma da parte dei Buddha e dei Patriarchi,[14] chiese a Dōchō di designarlo quale suo erede nel Dharma. Non volendo acconsentire, il Maestro disse: “Per ricevere da me il Sigillo della Trasmissione non devi avere fretta. Piuttosto, studia con maggiore impegno ed addestrati con più diligenza. Non è così semplice ricevere la trasmissione dei Buddha e dei Patriarchi. Non sto rifiutando il mio sigillo perché lo voglio lesinare, ma tu non hai ancora aperto la tua mente.” Sōkō protestò: “Possiedo in modo innato il vero occhio del risvegliarsi da sé. Perché mai non vuoi darmelo?” Dōchō si limitò a sorridere senza parlare.
Più tardi, Sōkō studiò sotto il Sacerdote Tandō.[15] Un giorno il Maestro gli chiese: “Perché oggi hai una sola narice?”[16] Sōkō disse: “Sono il discepolo di Hōbō!”[17] Tandō disse: “Che misarabile monaco Zen!”
In un’altra occasione, Sōkō stava salmodiando e il Maestro Tandō chiese: “Quale sūtra stai recitando?” “Il Sūtra del Diamante” rispose Sōkō. E il Maestro: “Nel principio di equanimità non c’è alto o basso. Perché dunque il monte Ungo è alto, e il monte Hōbō è basso?” Sōkō rispose: “Nel principio di equanimità non c’è alto o basso.” “Mi stai solo scimmiottando!” disse il Maestro e lo scacciò.
Un altro giorno ancora, il Maestro Tandō vide qualcuno che puliva l’immagine di Emma, il Re dell’Inferno,[18] e chiese a Sōkō: “Chi è costui?” “Ryō” fu la risposta. [19] Tandō si grattò la testa e disse: “Ha il mio stesso nome, ma non indossiamo lo stesso genere di vestito.” Sōkō disse: “È vero. Voi avete l’aspetto di un monaco.” “Ma che testa di legno sei!” gli disse il Maestro.
Una volta, il Maestro Tandō disse a Sōkō: “Forse hai raggiunto una comprensione empirica del mio Zen e potresti anche essere capace di spiegarlo. Può darsi che su di esso tu sia in grado di comporre versi e commentari o, anche, di farne oggetto di spiegazioni, discorsi e istruzioni personali. Eppure, non hai ancora raggiunto la completa conoscenza di una cosa. Sai Qual è?” “Manco forse di qualcosa?” chiese Sōkō. Tandō rispose: “Sì, e te lo spiegherò. Quando ti trovi nella mia stanza, lo Zen esiste; quando te ne vai, lo Zen scompare. Similmente, quando sei sveglio, lo Zen è lì ma, quando dormi, se ne va. Se questo è il tuo Zen, come puoi affrontare la questione di vita e morte?” “È vero, questo è il mio dubbio principale” ammise Sōkō.
Più tardi, il Maestro Tandō cadde malato e Sōkō gli chiese: “O monaco, su chi posso contare nei prossimi cent’anni per risolvere il mio problema fondamentale?” Tandō gli rispose con durezza: “C’è un uomo chiamato Gō di Ha,[20] ma non lo conosco. Se incontri un altro maestro, sicuramente risolverai i tuoi dubbi. Se lo incontri, non andartene poi da qualche altra parte. Dopo tale incontro, non dovrai più studiare lo Zen per lungo tempo.”
Riflettendo su questi dialoghi si può capire perché il Maestro Tandō non concesse a Sōkō di divenire suo erede nel Dharma. Più volte Tandō cercò di aiutare Sōkō ad aprire la propria mente, ma questi non sapeva lasciar cadere i propri dubbi; non riusciva a scoprire quale fosse il suo problema, né a liberarsene. In precedenza, il Maestro Dōchō non gli conferì il Sigillo della Trasmissione ma, piuttosto, lo incoraggiò dicendogli che era ancora manchevole in qualche aspetto.
La percezione del Maestro Dōchō era chiara e attendibile. Ovviamente Sōkō non studiava correttamente e non aveva conseguito la liberazione né, tantomeno, aveva risolto il suo problema, o chiarito il proprio dubbio. Chiedeva spesso di ricevere il Sigillo della Trasmissione perché nel suo studio era superficiale, perché la sua mente non era rivolta alla Via, e perché non conduceva una corretta prassi e investigazione. Questo è difettare di un pensiero profondo.
Tutti coloro che, a causa del loro studio inadeguato o del loro amore per fama e ricchezza, non riescono a realizzare la Via del Buddha, distruggono l’intima essenza dei Buddha e dei Patriarchi. È veramente un peccato non conoscere le parole dei Buddha e dei Patriarchi. Costoro non sanno che la prassi è risvegliarsi da se stessi, e che il far visita ai veri maestri conduce all’illuminazione raggiunta da sé. Perciò essi, spesso, cadono in malintesi ed in errate interpretazioni. È per questo motivo che nessuno degli allievi o discendenti di Sōkō ha mai compreso la verità, pur pretendendo di essere veri studenti. Tali cose succedono quando non riusciamo ad incontrare e comprendere il Dharma del Buddha. I monaci dei giorni nostri dovrebbero approfondire ciò, dettagliatamente, e non essere mai indolenti.
Alla morte del Maestro Tandō, Sōkō seguì le istruzioni ricevute e andò a studiare sotto Engo, nel monastero di Tennenji, nella capitale. Un giorno, il Maestro Engo si trovava nella Sala del Dharma e Sōkō gli disse: “Devo palesare il possesso del risveglio Zen.” Allora Engo disse: “No! Non ancora. Checché tu ne dica, non hai chiarito il grande Dharma.”
Un’altra volta, nella Sala del Dharma, Engo stava commentando il detto del quinto Patriarca Hōen: “Talvolta usiamo le parole, talvolta no.” Udito il relativo commento, Sōkō disse: “Ho conseguito il Dharma di pace e di beatitudine.” Allora il Maestro Engo rise, e disse: “Non ti ho ingannato.”[21]
Questa è la storia di come Sōkō si trovò a studiare sotto il Maestro Engo; pur essendogli stato concesso di entrare nella comunità di questo maestro, fu incapace di compiere qualsiasi progresso. Sōkō non diede mai prova di aver conseguito una nuova capacità di penetrazione, né nei suoi discorsi informali né nei sermoni. Dovremmo sapere che, a differenza di quanto affermato da certe cronache, Sōkō non possedette mai l’illuminazione Zen, e nemmeno conseguì il Dharma della grande pace e beatitudine. Egli fu solo uno studente e niente di più.
Il Maestro Zen Engo era un vecchio Buddha venerato nelle dieci regioni dell’Universo. Fin dai tempi di Ōbaku[22] una simile grande figura non era più comparsa. Il Maestro Engo è un tipo molto raro di vecchio Buddha, anche in altri mondi; egli, tuttavia, è molto poco conosciuto in questo nostro mondo di dolore.
I suoi avvertimenti a Sōkō dimostrano che l’allievo non eguagliò né, tantomeno, superò il maestro; come avrebbe potuto un simile uomo essere superiore al maestro? Nemmeno per sogno. Dovremmo dunque sapere che Sōkō non fu capace di conseguire neppure la metà delle virtù del suo Maestro. Egli si era limitato a studiare a memoria i detti dell’Avatamsaka Sūtra e del Śūramgama Sūtra, e a ripeterli meccanicamente. Non riuscì mai ad ottenere le ossa e il midollo dei Buddha e dei Patriarchi.
Sōkō riteneva che il Dharma del Buddha significasse che chiunque cerchi nell’ambito della religione, sia egli di alta o bassa levatura, possa essere influenzato dallo spirito di oggetti naturali quali alberi o erbe, e che la comprensione intuitiva sia possibile ottenerla a partire da questo spirito. Perciò egli non riuscì mai a chiarire la grande Via dei Buddha e dei Patriarchi. Dopo aver lasciato il Maestro Engo non si recò presso nessun altro maestro e, senza alcuna reale autorità, divenne abate di un grande tempio e cominciò ad istruire gli unsui.[23] Qualunque cosa egli abbia insegnato, non giunse neppure al limitare della grande Legge. Coloro che non conoscono la sua vera storia pensano, tuttavia, che Sōkō valga almeno quanto altri maestri del passato. Invece, coloro che lo conoscono, affermano chiaramente che egli non chiarì né comprese il grande Dharma, e che non fece altro che ciarlare in modo incoerente.
Possiamo constatare che il Maestro Dōchō, del Tōzan, possedeva la corretta visione, senza alcun errore. Ciò nonostante, ancora oggi, gli allievi di Sōkō sono invidiosi di lui. Il Maestro Dōchō rifiutò a Sōkō il sigillo, e il Maestro Tandō fu ancora più severo. Ogni qual volta Sōkō chiedeva di ricevere l’attestazione, non faceva altro che mostrare la sua immaturità. Eppure, i suoi discendenti non sono gelosi di Tandō. Coloro che invidiano Dōchō dovrebbero vergognarsi.
Nella grande dinastia Sung in molti si sono autoproclamati discendenti dei Buddha e dei Patriarchi, ma pochi di essi hanno studiato veramente e un numero ancora minore ha compreso la verità, proprio come dimostra la storia che ho appena narrato. Lo stesso è avvenuto nel periodo Shōkō e al giorno d’oggi è ancora peggio. Di recente, alcune persone che non conoscono la grande Via dei Buddha e dei Patriarchi, sono diventate insegnanti di unsui.
Nella linea di Seigen,[24] il Sigillo della Trasmissione è correttamente trasmesso da Buddha a Buddha, da Patriarca a Patriarca, tanto in oriente quanto in occidente. Da Seigen esso passò a Tōzan[25] e nessun altro, nell’intero Universo, possiede questa conoscenza. Solamente i discendenti di Tōzan ne hanno una completa comprensione; è questo che gli unsui dovrebbero rispettare.
Sōkō, nel corso di tutta la sua vita, non riuscì neppure a comprendere il vero significato di “Risvegliarsi da se stessi” e di “Da sé illuminarsi.” Come poté dunque padroneggiare un qualsiasi kōan? E come può, uno dei suoi discepoli, comprendere il “Risvegliarsi da sé?” Possiamo così affermare che la Via dei Buddha e dei Patriarchi, per se stessi e per gli altri, è certamente il corpo, la mente e la visione illuminata dei Buddha e dei Patriarchi. È le loro ossa e il loro midollo, e gli sciocchi non possono nemmeno scalfirne la superficie.
Trasmesso ai monaci del Kippōji nell’Echizen, il 29 febbraio 1244.
Trascritto da Ejō, nell’alloggio del discepolo principale, il 12 aprile del medesimo anno.
[1] Si veda il cap. 52, Busso.
[2] Si riferisce al risveglio.
[3] Si riferisce alla prassi.
[4] Si veda il cap. 34, Bukkyō.
[5] Un kalpa indica un tempo infinitamente lungo; rappresenta infatti un ciclo cosmico pari a circa trecentoventi milioni di anni. Si veda il Sūtra del Loto, pag. 60.
[6] Si veda il cap. 5, Sokushinzebutsu.
[7] I cinque skanda o aggregati sono: rūpa (il corpo-forma), vedanā (la sensazione), samjñā (la percezione, la nozione), samskarā (le impressioni risultanti, gli elementi della coscienza, lett. “I formati e i formanti”), e vijñāna (la coscienza individuale, la conoscenza discriminante).
[8] 1131-1162
[9] Il Maestro Daie Sōkō (1089-1163), nella linea di trasmissione del Maestro Engo Kokugon. Egli era uno dei principali sostenitori del Kōan-zen (basato sulla considerazione intenzionale di domande e risposte), contrapposto al Mokusho-zen (Zazen silenzioso, riflessivo), sostenuto dal contemporaneo Maestro Wanshi Shōkaku. [Ta-hui Tsung-kao]
[10] L’Abhidharma, è il canestro dei commentari che assieme ai Sūtra (i discorsi), e al Vinaya (i precetti), forma i tre canestri dell’Insegnamento, il Tripitaka.
[11] Il Maestro Myōkyō Shōri (?), noto anche come Maestro Ri del Senshū.
[12] Il Maestro Tōzan Dobi (?), succesore del Maestro Fuyō Dōkai (1043-1118).
[13] Il Maestro Fuyō Dōkai (1043-1118), nella linea di trasmissione del Maestro Tōzan. [Fu-jung Tao-chieh]
[14] Probabilmente si riferisce alla prassi ascetica, in uso nei tempi antichi, di bruciare una piccola quantità d’incenso sul gomito o sul braccio. In epoca più recente, la procedura simbolica di sospendere al braccio un piccolo incensiere, era un metodo per la richiesta del certificato di successione.
[15] Il Maestro Tandō Bunjun (1060?-1115), successore del Maestro Shinjō Kokumon. Era noto anche con il nome di Rokutan, che era il nome di uno stagno presso cui viveva.
[16] Cioè, solo metà del vero sé.
[17] Hōbō era il Maestro di Tandō. Con questa affermazione egli non si faceva carico della responsabilità della propria condizione.
[18] Una delle figure terrifiche a guardia del Dharma.
[19] Ryō era il nome secolare del Maestro Tandō.
[20] Era questo il soprannome del Maestro Engo Kokugon (1063-1135). [Yü-an-wu K’o-ch’in]
[21] Cioè: “Non hai ancora conseguito il risveglio.”
[22] Il Maestro Ōbaku Kiun (?-855?), uno dei successori del Maestro Hyakujō Ekai. [Huang-po Hsi-yün]
[23] Unsui, lett. “Nuvole e acqua”, tradizionalmente è riferito ai monaci novizi. La figura simboleggia la condizione priva di impedimenti del correre delle nuvole e del fluire dell’acqua.
[24] Il Maestro Seigen Gyōshi (?-740), uno dei successori del Maestro Daikan Enō. Egli fu il settimo Patriarca in Cina. [Ch’ing-yüan Hsing-ssu]
[25] Il Maestro Tōzan Ryōkai (807-869), nella linea di trasmissione del Maestro Yakusan Igen. [Tung-shan Liang-chieh]