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BODAISATTA SHISHŌBŌ
Le Quattro Azioni Benefiche del Bodhisattva
Il Dharma del Buddha attribuisce una grande importanza all’azione in generale, privilegiando l’aspetto concreto e fattivo rispetto ad un atteggiamento intellettivo. Questo è particolarmente valido rispetto all’agire in relazione ad altri. In questo capitolo il Maestro Dōgen analizza le quattro basilari modalità di comportamento nel quotidiano agire di un Bodhisattva.
Le quattro forme che un Bodhisattva manifesta al fine di condurre tutti gli esseri senzienti all’emancipazione sono: elargire doni, parlare in modo amichevole, prendersi cura degli altri, essere compassionevoli.[1]
‘Elargire doni’ significa anche non desiderare le cose degli altri, non essere avidi, non blandire, adulare, o elemosinare favori. Se vuole diffondere la retta via, perfino un re che governa il mondo intero deve elargire doni. Solo attraverso la virtù del dāna[2] si può costruire un mondo pacifico. La virtù del donare è come quella che attribuiamo ai gioielli e alla gente che non conosciamo; essa è priva di avidità o astio. È come offrire al Buddha un fiore sbocciato tra i monti lontani, come offrire ad un essere senziente dei preziosi gioielli o una vita anteriore. La nostra natura originaria possiede la capacità di elargire doni, spirituali e materiali, in ogni istante. Anche se in linea di principio il sé non possiede alcunché, ancora possiamo elargire doni. Non ha alcuna importanza che essi siano piccoli o grandi; il punto essenziale è se possono essere di beneficio agli altri. Lo stesso merito insito nell’elargire doni produce frutto. Affidandoci fiduciosi alla Via, saremo integri; in questo modo il tesoro genera il tesoro e diventa elargizione di doni. Se cominciamo a donare, anche gli altri doneranno di conseguenza. Il potere che induce a donare penetra gli esseri celestiali e umani, gli asceti e i saggi, e conduce al totale risveglio grazie alle cause e alle condizioni proprie dell’atto del donare.
Il Buddha disse che quando una persona generosa si presenta ad un’assemblea di monaci, questi la considerano con rispetto. Ciò significa che non si sta a guardare le intenzioni della persona che elargisce doni. Ci può essere contatto tra le menti anche senza parole, e dunque dovremmo donare. Si può regalare alla gente una singola parola o una frase d’insegnamento, una monetina e perfino solo un filo d’erba. Questi doni possono generare buone conseguenze in questo mondo e nel successivo. Il Dharma è un tesoro, un tesoro è il Dharma; questo è grazie alla compassione dei Bodhisattva. Le parole che seguono ne sono un esempio. Una volta, un re cercò di guarire un ministro ammalato somministrandogli un medicamento e bruciandogli la barba; la gente di quel paese aveva fiducia in lui. C’era anche un bambino che, giocando in una cava, offrì della sabbia come cibo per il Buddha ed in seguito, grazie al merito di questa azione, ascese al trono. In entrambi i casi queste persone fecero semplicemente ciò che potevano, senza attendersi un risultato. Rifornire un battello sul fiume, o costruire un ponte, è elargire doni. Comprendendo il reale significato del donare capiremo che anche avere responsabilità sociali e operare per il bene comune è elargire doni. Anche la politica e le attività lavorative sono di per sé un donare. Quando viene il momento, il vento fa cadere i fiori e l’uccello canta al ritmo delle stagioni.
Il grande re Aśoka,[3] che era profondamente devoto al Buddha e che, saldo, regnò fino alla morte, in età avanzata offrì mezzo mango[4] ad un gruppo di monaci. Era solo un piccolo mango eppure costituì per l’assemblea un grande merito. Coloro che intendono elargire doni dovrebbero chiarire questo principio e sforzarsi di non perdere alcuna occasione per donare. Di fatto, la nostra natura originaria possiede il grande merito di elargire doni e, anche se tutte le persone sono diverse tra loro, ognuna ha nondimeno l’opportunità di elargire doni.
Il Buddha disse che dovremmo far nostra questa capacità di donare e che poi dovremmo trasmetterla a genitori, mogli e figli. Anche se la usiamo come fosse nostra, essa ancora è dāna, così come è dāna ciò che ricevono genitori, mogli e figli. Possedendo anche solo una briciola di generosità, la nostra mente sarà ricolma di gioia perché questo donare diventa ciò che rettamente trasmettiamo agli altri e rappresenta un merito e uno degli aspetti del Buddha. D’altronde, vale la pena di compiere una delle azioni proprie del Bodhisattva.
Non possiamo modificare la mente di un essere senziente ma, nel momento in cui doniamo qualcosa di concreto abbiamo la possibilità di mostrare la nostra mente della Via e la possibilità di aiutare una persona a modificare se stessa e accedere alla Via del risveglio. Per raggiungere questo risultato dobbiamo certamente fare un primo passo, cominciando col donare. È in questo senso che l’elargire doni è la prima delle sei azioni del Bodhisativa, o pāramitā.[5] Non possiamo valutare le dimensioni della mente, né dire se sia grande o piccola, né di fatto possiamo misurare la grandezza degli oggetti. C’è, tuttavia, un momento in cui la mente modifica gli oggetti e gli oggetti modificano la mente, e questo avviene quando entrambi possiedono la capacità di donare.
‘Parole amichevoli’ significa che la nostra compassione si desta naturalmente nel momento in cui incontriamo un essere senziente e gli parliamo in modo amichevole; non è neppure immaginabile che vengano utilizzate parole grossolane. È naturale informarsi sulle condizioni di una persona, nel salutarla. Nel Via del Buddha si usa l’espressione “Abbi cura di te stesso”, mentre le persone anziane si salutano dicendo “Come state?” Quando ci si incontra e si discorre, dovremmo aver cura l’uno dell’altro come si farebbe con un bambino. Con una simile mente possiamo parlare sinceramente, cioè utilizzare parole amichevoli. Se qualcuno possiede una virtù dovremmo elogiarla, se non la possiede dovremmo averne compassione. Se amiamo il parlare amichevole e lo utilizziamo con gli altri, la sua efficacia aumenta; emergeranno allora le parole amorevoli che sono nascoste nella nostra vita quotidiana. Per tutta la durata di questa esistenza dovremmo perseguire la capacità di parlare affabilmente. Non dovremmo mai dimenticarla, né in questo mondo né nel successivo: essa è il fondamento della prossima esistenza.
Essere amico di chi ci è ostile e riconciliare governanti nemici dovrebbe essere la radice del parlare amichevole. Nel sentire pronunciare parole affabili dovremmo volgerci verso chi parla, questo lo renderà felice e lo farà sorridere di gioia. Ascoltare senza riserve chi parla amorevolmente, lascerà una traccia nel nostro cuore e mente. Bisogna sapere che il parlare amichevole deriva da una mente amorevole e che questa si fonda sulla compassione. Dovremmo imparare che il parlare amichevole ha il grande potere di mutare le situazioni, e che vale e significa ben di più di un semplice elogio.
‘Prendersi cura degli altri’ significa che ci prendiamo cura di ogni genere di persona, senza badare alla sua condizione sociale, perché questo apporta merito alla nostra vita. Dovremmo pensare al presente e al futuro degli altri, ed anche a come aiutarli perché possano sviluppare merito.
In Cina molto tempo fa, durante l’epoca Shin, visse un uomo chiamato Koyu che, avendo visto un pescatore catturare una tartaruga, la acquistò e la ributtò nel fiume. Nel periodo Gokan visse un uomo chiamato Yoho che da ragazzo aveva salvato un passero ferito, ai piedi del monte Kain. Vedendo la tartaruga e il passero, essi semplicemente ne furono rattristati; non si aspettavano alcun merito speciale. Non avrebbero potuto fare a meno di aiutarli. Fu la loro mente benevolente che li indusse ad agire così, direttamente. Gli sciocchi ritengono che se il merito dell’altra persona è maggiore, il loro andrà perduto. Questo non è vero. L’atto del prendersi cura di un altro è l’unico principio in cui non c’è opposizione tra soggettività e oggettività. É un’azione che produce merito per entrambi.
C’è una vecchia storia a proposito del re Shuko. Se si presentava un ospite mentre stava facendo il bagno o stava pranzando, il re si pettinava e lo riceveva. Faceva tutto il possibile per donare il suo merito agli altri, senza distinguere tra genti di paesi diversi; trattava tutti allo stesso modo. Egli si prendeva ugualmente cura di tutti, senza distinguere tra chi gli serbava rancore e chi gli era amico. Solo evitando qualsiasi discriminazione possiamo produrre merito per noi stessi e per gli altri. Coltivando una simile mente possiamo trovare merito anche nei fenomeni naturali: erba, alberi, vento o acqua. Questa mente, fermamente intenzionata, sempre produce merito; con naturalezza essa si occupa degli stolti e cerca di salvarli.
‘Essere compassionevoli’ significa non differenziarsi dagli altri, così come fece il Buddha Śākyamuni, che nacque e trascorse l’intera vita come essere umano. Egli visse in modo compassionevole anche in altri mondi, ad esempio quelli infernali e quello degli animali. Quando conosciamo l’arte di identificarci con gli altri, siamo in pace con noi stessi e con gli altri. C’è un’espressione giapponese che dice: essere amici del koto,[6] della poesia e del saké. Ciò significa che come esseri umani facciamo amicizia con la musica, con la poesia e con il saké, e che questi diventano nostri amici. Come esseri umani facciamo amicizia con i cieli, con gli dèi e con altri esseri ancora; i cieli fanno amicizia con i cieli, gli dèi con gli dèi. É così che impariamo circa l’essere compassionevoli. Nel nostro identificarci, la forma è contegno, stile e atteggiamento, e ognuno entra in armonia con se stesso e con gli altri. A volte armonizziamo prima con noi stessi, a volte prima con gli altri. Il rapporto tra noi e gli altri è infinito come il nostro rapporto col tempo.
Nel Kanshi[7] è detto: “I mari accolgono acqua senza limiti e così nascono i grandi oceani; le montagne ricevono terra senza limiti e così si creano le grandi catene montuose.” In modo analogo un re eminente riceve persone d’ogni genere; per questo governerà su molte genti e paesi. È così che un simile eccellente re diverrà imperatore. Un imperatore non detesta il suo popolo ma questo non significa che eviterà d’impartire punizioni e, certamente, anche ricompense. Persino quando punisce, egli non odia mai il condannato. Molto tempo fa, quando la gente era semplice e onesta, non c’era alcun bisogno di punizioni e le cose andavano in modo diverso. Eppure, ancora oggi, ci sono persone che cercano la Via senza sperare in ricompense, o temere punizioni. Gli sciocchi non possono neppure immaginarsi un simile atteggiamento.
Un re eccellente capisce con chiarezza la mente delle persone e non rifiuta, né discrimina alcuno. In questo modo, la gente si raccoglie intorno a lui e viene così a costituirsi un paese o una nazione. Essi mostrano il tipo di mente che ricerca un re eminente. Tuttavia, le persone comuni non conoscono né l’idea né il principio che regge la natura di un re eccellente; semplicemente, sono felici se il re non le detesta e non le respinge. Talvolta, addirittura, esse sostengono il re anche senza sapere che egli non le respingerà. In altre parole, un re intelligente e un popolo sciocco riescono a convivere in armonia. É così che la gente chiede aiuto al re, ed ecco perché identificarsi con gli esseri senzienti è la condotta e il voto del Bodhisattva.
In tutti i modi possibili, di fronte ad una qualsiasi richiesta, il Bodhisattva agisce per salvare gli esseri senzienti. L’unica qualità necessaria è affrontare ogni evento con una mente aperta e flessibile. Ognuna di queste quattro virtù benefiche possiede e racchiude tutte le altre,[8] formando così un totale di sedici virtù.
Scritto il 5 maggio 1243, dallo śramana[9] Dōgen che ha portato il Dharma dalla Cina.
[1] I quattro metodi di relazione sociale, dal sanscrito catvāri-samgraha-vastūni, sono: dāna, elargire doni sia spirituali che materiali; prya-ākhyāna, parlare in modo amichevole; artha-caryā, giovare agli esseri senzienti con un retto contegno di corpo, parola e mente; samāna-arthatā, identificarsi con gli esseri senzienti che si vogliono aiutare.
[2] È il primo dei sei pāramitā, o perfezionamenti. Gli altri sono: śīla (l'integrità morale, l'etica), ksānti (la pazienza), vīrya (il vigore), dhyāna (l'assorbimento, la concentrazione), e prajñā (la saggezza trascendente). Il sanscrito pāramitā significa ciò che è arrivato alla sponda opposta, opera ben compiuta.
[3] Aśoka (270-230 a.C.), il terzo re della dinastia Maurya. Egli patrocinò il Terzo Concilio, a Pātaliputra, eresse molti stūpa e colonne votive, ed inviò missioni all’estero per diffondere il Dharma del Buddha.
[4] Un frutto che, nei templi, era utilizzato per preparare delle zuppe.
[5] I pāramitā, o perfezionamenti sono sei: dāna (il libero donare), śīla (l'integrità morale, l'etica), ksānti (la pazienza), vīrya (il vigore), dhyāna (l'assorbimento, la concentrazione), e prajñā (la saggezza trascendente). Il sanscrito pāramitā significa ciò che è arrivato alla sponda opposta, opera ben compiuta.
[6] Uno strumento musicale giapponese, tradizionale.
[7] Un testo taostico attribuito a Guan-tzu.
[8] Cioè non sono indipendenti l’una dall’altra.
[9] Śramana (lett. “Colui che si sforza”) originariamente descriveva un mendicante itinerante che non apparteneva alla casta dei brahmāni, diversamente da un parivrājaka, mendicante itinerante religioso di origine brahmānica. Il Buddha applicò ai monaci buddhisti il termine śramana.