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HAKUJUSHI
La Quercia
Il capitolo è interamente dedicato al Maestro Jōshū Jushin. Il Maestro Dōgen narra la storia di questo Maestro, che condusse una vita molto povera e austera, citando alcuni passi della sua biografia. La seconda parte del capitolo, in una suddivisione ideale, è incentrata sul famoso kōan: “Perché Bodhidharma è venuto da Occidente?” con un lungo commento alla risposta data dal Maestro Jōshū.
Il Grande Maestro Jōshū Shinsai[1] fu il trentasettesimo Patriarca, a partire da Śākyamuni, il Tathāgata.[2] Maturò la decisione di cercare la Via a sessantun anni, lasciò la casa e cominciò a studiare la Via. In quel momento disse: “Se incontrerò un uomo di cento anni che mi sia inferiore, lo istruirò. Se incontrerò un bimbo di sette anni che mi sia superiore, da lui apprenderò la Via.” Fatto questo voto partì verso il sud, in pellegrinaggio.
Un giorno giunse da Nansen[3] e si recò a porgergli i suoi omaggi. Entrò nella stanza, per salutarlo, e vide che giaceva coricato. Nansen gli chiese: “Da dove vieni?” “Dallo Zuizoin”[4] rispose Jōshū. “Hai visto la Zuizo?[5]” chiese Nansen. “No, quella non l’ho vista, ma vedo un Buddha coricato.” Nansen allora si mise seduto e chiese: “Sei un novizio senza maestro?” “Ce l’ho un maestro” gli disse Jōshū. “Chi è?” chiese Nansen. “La primavera è all’inizio ed è ancora freddo ma voi, venerabile sacerdote, avete un bell’aspetto.” Nansen chiamò il capo dei monaci e disse: “Abbi particolare cura di questo novizio.”
Fu così che Jōshū cominciò a studiare sotto Nansen. Da allora non lasciò mai quel luogo per oltre trent’anni, e si addestrò diligentemente sulla Via. Non sprecò mai il suo tempo né mai si dedicò a cose inutili. Dopo che ebbe ricevuto la trasmissione della Via, divenne abate di Kannonin nel Jōshū e lì visse per altri trent’anni. Come abate fu molto diverso dai tipici preti della sua epoca.
Un giorno il Maestro Jōshū disse: “Solamente dalle cucine circostanti si innalza del fumo, e non ho più mangiato un manju o un dango[6] dall’anno scorso. I monaci pensano poco al proprio addestramento ma, in compenso, si lagnano molto. In città non c’è più rimasta brava gente. Quando fanno visita al tempio, la prima cosa che chiedono è il tè, e se non ce n’è si stizziscono e se ne vanno.” È davvero un peccato che non esca del fumo dalla cucina di Jōshū e che ci sia così poco cibo. È da un anno che mancano le provviste. Dal villaggio la gente viene solo per il tè; se non hanno desiderio di un buon tè non vengono, e mai nessuno di essi ne porta in offerta. I monaci vogliono vedere un saggio, ma nessuno vuole diventarlo.
In un’altra occasione, il Maestro Jōshū disse: “Al di fuori di tutti coloro che hanno rinunciato al mondo, c’è qualche altro che viva come vivo io? Dormo per terra, su di una stuoia a brandelli, senza una coperta e con un pezzo di legno come cuscino. Nessun incenso brucia davanti all’immagine del Buddha; c’è solo la puzza dello sterco da ardere.” Possiamo vedere da questa descrizione quanto fosse povera la vita di Jōshū. Tutti noi dovremmo seguire il suo esempio. Eppure, poiché pochi sono capaci di condurre una vita così difficile, meno di venti monaci studiavano sotto di lui. Il monastero era piccolo e privo di appropriate comodità come sedie o lavatoi. Non c’era nessuna luce per la notte, né carbone per l’inverno. Era una vita molto austera, specie per una persona in età avanzata. Ciò nonostante, tutti gli antichi Buddha vissero così, come Jōshū.
Una volta, uno degli attendenti del tempio avrebbe voluto sostituire la gamba di una piattaforma, che tempo prima si era spezzata e che era stata rappezzata alla meglio con un pezzo di legno, ma Jōshū non lo permise. Questo è un aneddoto assai inconsueto. Spesso non c’era nemmeno un chicco di riso per la farinata del mattino; c’era solo la luce che si riversava attraverso la finestra e della polvere che volteggiava attraverso le fessure. Talvolta Jōshū stesso raccoglieva noci e bacche da utilizzare per il pasto dei monaci. Tutti i suoi discendenti ne elogiano la vita austera e, anche se non possono seguire le sue orme, desiderano ardentemente questo tipo di vita.
Un’altra volta, il Maestro Jōshū disse ai monaci: “Ho vissuto trent’anni nel sud non facendo altro che zazen. Tutti voi dovreste concentrarvi sullo zazen al fine di chiarire la grande questione di vita e morte. Se dopo tre, cinque, venti o trent’anni di prassi non riuscite a conseguire la Via, tagliatemi la testa e usatela come bacinella da cesso.” Jōshū usava espressioni di questo genere, forti. In verità, la prassi dello zazen è la strada diretta alla Via del Buddha; cercate nello zazen la verità. Più tardi, molti sostennero che Jōshū era un antico Buddha.
Una volta, un monaco chiese al Grande Maestro Jōshū: “Perché il primo Patriarca venne da occidente?” Jōshū rispose: “La quercia, nel giardino di fronte.” Il monaco disse: “Prete, non dovresti dare una risposta così oggettiva.” A questo, Jōshū replicò: “Non l’ho fatto.” Il monaco chiese di nuovo: “Perché il primo Patriarca venne da occidente?” Jōshū rispose: “La quercia, nel giardino di fronte.” Benché questo kōan[7] sia nato con Jōshū, fu creato dal corpo intero di tutti i Buddha. Chi è il maestro di questo kōan?[8] Dovremmo certo sapere che il principio de “La quercia, nel giardino di fronte” e de “Perché il primo Patriarca venne dall’occidente”, non appartiene al mondo oggettivo. Inoltre, la quercia non è il sé oggettivo.
È perché abbiamo “Prete, non dovresti dare una risposta così oggettiva” che vi è : “Non l’ho fatto”; come può il prete provare attaccamento per il prete? Se non prova attaccamento diventa io. E come può l’io provare attaccamento per l’io? Se prova attaccamento diventa un essere umano. Quale grado di oggettività può essere impedito da “Venne dall’occidente”, dato che “Venne dall’occidente” si verifica nel mondo oggettivo?Tuttavia non aspettatevi coscientemente una condizione oggettiva di “Venne dall’occidente” perché questo non è necessariamente l’Occhio e il Tesoro della Vera Legge, né la Serena Mente è la mente, né il Buddha né le cose.
“Perché il primo Patriarca venne da occidente?” non è una domanda e nemmeno indica che il monaco e Jōshū condividessero lo stesso punto di vista. Quando si pone questa domanda nessuna persona è percepita, e nemmeno chi chiede può ottenere alcunché. Più approfondiamo la questione, più è impenetrabile. Dunque la nostra risposta è incompleta e l’errore si somma all’errore; il nostro parlare è come una vuota eco, non è così? Perché “La quercia nel giardino di fronte” non contiene in sé oggettività né soggettività; queste parole affondano le loro radici nella totale libertà.
Non stiamo parlando in senso oggettivo, perciò questa quercia non è del genere usuale. Anche considerandola da un punto di vista oggettivo, Jōshū non diede una risposta oggettiva. Questa quercia non è simile a quelle vicino alla tomba dell’imperatore. Non essendo simile a quelle,[9] la nostra quercia può trasformarsi in polvere. Anche quando diventa polvere, non può ostacolare i nostri pensieri né la nostra prassi, e di conseguenza Jōshū disse: “Non ho dato una risposta oggettiva.” Come si può mostrare questo ad altri, dato che noi stessi siamo come la quercia?[10]
Un giorno, un monaco chiese a Jōshū: “La quercia ha la natura-di-Buddha?” Jōshū rispose: “Ce l’ha.” Allora il monaco domandò: “Quand’è che la quercia diventa un Buddha?” Jōshū disse: “Attende che il cielo cada sulla terra.” E il monaco: “Quand’è che cade sulla terra?” “Attende che la quercia diventi un Buddha.”
Dovremmo considerare con attenzione sia la domanda del monaco, sia la risposta del Grande Maestro. Le frasi di Jōshū “Quando il cielo cade sulla terra” e “Quando la quercia diventa un Buddha” non esprimono un’idea di reciproca attesa. Il monaco interrogava circa la quercia, la natura-di-Buddha,[11] il divenire un Buddha, il tempo, il cielo e il cadere sulla terra. La risposta di Jōshū: “Ce l’ha”, significa che la quercia possiede la natura-di-Buddha. Per padroneggiare questo a fondo, dobbiamo impadronirci della linfa vitale dei Buddha e dei Patriarchi. Di solito non si sostiene che la quercia possiede la natura-di-Buddha. Tuttavia, dal momento che ciò è stato detto, dovremmo chiarirlo.
È elevata o umile la condizione della quercia che possiede la natura-di-Buddha? Dovremmo cercare di scoprire se è o non è longeva, quanto è alta, e a quale genere e famiglia appartiene. Centomila alberi sono uguali o diversi? C’è una quercia che diventa Buddha, una quercia che si addestra, o una quercia dalla mente risvegliata? Esiste un particolare rapporto tra cielo e querce? Per diventare un Buddha la quercia attende che il cielo cada; questo significa forse che la quercia diventa il cielo? E ancora, la quercia si trova sul primo o sull’ultimo gradino del cielo? Questo dovrebbe essere investigato dettagliatamente. Ora chiediamo a Jōshū: “Parli in questo modo perché sei una cosa sola con la quercia, non è così?”
In generale, “La quercia possiede la natura-di-Buddha” non è il modo di vedere né dei seguaci dell’Hīnayāna o della gente comune, né l’opinione degli studiosi dei sūtra e dell’abhidharma.[12] Come potrebbero, d’altro canto, esprimersi così simili persone aride e prive di vita? Solo uomini come Jōshū possono investigare e chiarire ciò. La sua frase: “La quercia possiede la natura-di-Buddha” ha a che fare con la questione se la quercia ostacola la quercia, o se la natura-di-Buddha ostacola la natura-di-Buddha. Questa espressione non è conosciuta a fondo solo da un Buddha o due, e non è necessario avere l’aspetto di un Buddha per conoscerla. Qualcuno dei Buddha può averla formulata, qualcuno no. “Aspettano che il cielo cada sulla terra” non implica che un simile evento non accada. Ogni volta che la quercia diventa un Buddha, il cielo cade sulla terra. Il rombo del cielo che cade sopra la terra, supera il fragore di centomila tuoni.
Quando la quercia diventa un Buddha, le ore del giorno vengono capovolte. Il cielo che cade sulla terra non è quello percepito dalla gente comune né dai saggi; c’è un altro tipo di cielo che solo Jōshū vede. ‘Terra’ non è la terra della gente comune o dei saggi, è un altro tipo di terra. Ombra e luce non possono soggiornarvi, solo Jōshū. Anche il sole, la luna, le montagne e i fiumi, attendono che il cielo cada sulla terra.
Chiunque sia in grado di parlare della natura-di-Buddha, di certo diventa un Buddha. Essa è l’ornamento del divenire un Buddha. Inoltre, la natura-di-Buddha coesiste simultaneamente col divenire un Buddha. Ecco perché la quercia e la natura-di-Buddha non sono, dunque, né suoni diversi né una stessa tonalità. Non importa in che modo cerchiamo di esprimerli; non è possibile farlo. Tutti voi dovete chiarire questa faccenda.
Trasmesso ai monaci nel Kannondōri-Koshōhōrinji, il 21 maggio del 1242.
Trascritto da Ejō, il 3 luglio 1243, nell’alloggio del Maestro.
[1] Il Maestro Jōshū Jūshin (778-897), uno dei successori del Maestro Nansen Fugan. [Chao-chou Ts’ung-shen]
[2] Lett. “Così arrivato”.
[3] Il Maestro Nansen Fugan (748-834), uno dei successori del Maestro Baso Dōitsu. [Nan-ch’üan P’u-yüan]
[4] Il tempio del Maestro Nansen.
[5] Un’immagine del Buddha, conservata nel tempio.
[6] Si tratta di due tipi di focacce dolci.
[7] Kōan, è l’abbreviazione di Kofu Antoku, che era in origine il nome di una tavola sulla quale venivano esposte le nuove leggi ufficiali, in Cina. All’interno della Via il suo significato è duplice. Uno, rappresenta la concreta manifestazione del Dharma, l’Universo stesso, la realtà (Si veda il cap. 1, Genjōkōan). L’altro rappresenta una storia che manifesta i principi universali del Dharma del Buddha.
[8] Allude alle parole del Maestro Zen Zuigan che era solito dire a se stesso: “Maestro!” e rispondersi “Sì.”
[9] Che non possono essere abbattute.
[10] Cioè, privi di discriminazione tra soggettivo e oggettivo.
[11] La natura-di-Buddha è la ‘Natura propria’, o ‘Vera natura’, o ‘Volto originario’ (comunque si voglia chiamare) di ogni essere, anche se questi lo ignora.
[12] L’Abhidharma, è il canestro dei commentari che assieme ai Sūtra (i discorsi), e al Vinaya (i precetti), forma il Tripitaka, i tre canestri dell’Insegnamento.