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(16)

GYŌJI

La Prassi Assidua

 

 

Il Maestro Dōgen, in questo lungo capitolo, affronta il punto centrale dell’Insegnamento del Buddha Śākyamuni: l’azione, il concreto fare. Questa azione, fondata sui precetti e sostenuta da una forte im­postazione etica dell’essere, è l’unico strumento a disposizione per svelare la realtà e per conseguire il risveglio. L’insegnamento del Maestro Dōgen si basa sul commento delle parole di numerosi Mae­stri e dei loro esempi di pura condotta e osservanza dei precetti. 


Senza alcun dubbio esiste, nella grande Via dei Bud­dha e dei Patriar­chi, la suprema prassi assidua che continua senza fine. Non vi è la mi­nima separazione tra risveglio della mente, prassi, illuminazione e nirvāna; la prassi assidua è un continuo moto circolare. Non dipende per­ciò da efficaci azioni individuali, né dallo spirito altrui; è la pura e incontaminata prassi assidua. Il potere della prassi assidua protegge noi stessi e gli al­tri. Fondamentalmente, la nostra prassi assidua per­vade cielo e terra, e influenza ogni cosa con il suo potere; ciò av­viene anche se noi non ne siamo consapevoli. Dunque, la nostra prassi assidua scaturisce dalla prassi assi­dua di tutti i Buddha e Patriarchi; è così che possiamo con­seguire la grande Via. La prassi assidua di tutti i Buddha scatu­risce dalla nostra prassi assidua, e tutti i Buddha conse­guono la grande Via.

La nostra prassi assidua genera virtù il­limitata. Per­ciò, tutti i Buddha e i Patriarchi ininterrot­tamente vivono come Buddha, trascen­dono il Buddha, possiedono la mente del Bud­dha e diventano Buddha.

È grazie alla prassi assidua che il sole, la luna e le stelle si muovono e che esistono la terra e il va­sto spazio, un  corpo e una mente appro­priati, oltre che i quattro grandi  elementi e i cinque skandha.[1] La prassi assidua non si trova nei luoghi ambiti dalla gente di mondo, ep­pure tutto deve tornare ad essa. Grazie alla prassi assidua di tutti i Buddha del passato, del presente, del futuro, sorgono tutti i Buddha del passato, del pre­sente e del futuro. La virtù della prassi assidua non è mai celata: la mente si de­sta e la prassi ha inizio. La sua virtù tuttavia non è sve­lata direttamente e perciò non può essere vista, udita o af­ferrata. Comunque, anche se non è manifesta, non consideratela come qualcosa di nascosto. Poiché la prassi assidua non può essere descritta in termini di nascosta o rivelata, manifesta o sommersa, non do­vremmo preoccu­parci tanto di conoscerne la causa; in effetti, questa conoscenza non è nulla di particolare. La causalità è prassi assidua, la prassi assidua non è causalità: dovremmo in­vestigare ciò, dettagliatamente.

La prassi assidua che manife­sta la prassi assidua, è null’altro che la prassi assidua del presen­te. La prassi assidua del presente non è la prassi assidua del sé originario, non viene, non va, non entra e non esce. “Nel presente” non significa “Che esiste anteriormente alla prassi assi­dua”, ma è  riferito al momento in cui la prassi  assidua si mani­festa. È per questo che la prassi assidua di un solo giorno è il seme di tutti i Buddha. È grazie alla prassi assidua che tutti i Buddha si manifestano ed esercitano la loro prassi assidua.

La prassi assidua non sorge se disprezziamo i Buddha e non li rispettiamo, se detestiamo la prassi assidua, se non identifichiamo vita e morte con il Buddha, se non studiamo e non ci addestriamo. Proprio questo mondo di “Fiori che sbocciano e foglie che cadono” non è altro che la realizzazione della prassi assidua. Pulire e poi fran­tumare uno specchio non è diverso dalla prassi assidua. Dunque anche chi, inquieto nel cuore, cerca di sfuggire alla prassi assidua, non può farlo; an­che questa azione è all’interno della prassi assidua. Cercare di ignorare la prassi assidua è come essere quel fi­glio di un ricco possidente che perse il suo patrimonio e vagò in terre straniere come un mendicante; egli riuscì a so­pravvivere a queste dure condizioni e riconquistò infine i suoi beni. Non dovremmo scordare la prassi assidua neppure un minuto.

Il Grande Maestro Śākyamuni, nostro compassionevole padre, iniziò la Sua vita di Buddha a diciannove anni; Egli esercitò la Sua prassi assidua e simultaneamente conse­guì la Via assieme a tutti gli esseri senzienti del cielo e della terra. Il Bud­dha esercitò la prassi assidua fino all’età di ottan­t’anni tra le montagne, nelle foreste e nei monasteri, senza tor­nare al palazzo paterno e senza curarsi degli affari di stato. In­dossò sempre lo stesso abito monacale e utilizzò sempre la stessa  ciotola, per tutta la vita; non passò neppure un’ora da solo. Non respingeva la cor­retta venerazione che gli veniva da cielo e terra, e ascoltava pazientemente le critiche della gente comune. L’intera sua vita fu prassi assidua. La dignità del Buddha, col suo abito semplice e la sua cio­tola per le elemosine, è niente altro che prassi assidua. Per tutta la vita il Patriarca Mahākāśyapa, erede nel Dharma del Buddha Śākyamuni, esercitò i dodici generi di prassi assidua:

. Non accettare mai inviti a pranzo. Elemosinava il suo pasto ogni giorno e rifiutava offerte di denaro per acqui­stare al­tro cibo.

. Soggiornare sempre tra le montagne, mai nelle città, nei villaggi o in case private.

. Non chiedere mai un abito nuovo e non accettarne uno in dono. Indossava solo cenci raccolti nei cimiteri e cu­citi assieme.

. Dormire nei campi sotto un albero.

. Mangiare soltanto una volta al giorno.

. Non sdraiarsi mai per riposare. Dormiva seduto in zazen, o camminava per mantenersi sveglio; non sedette mai su un cuscino.

. Avere soltanto tre kesa.

. Vivere presso le discariche di immondizie e mai in un tem­pio o con altri. Sedeva in zazen vicino al luogo di crema­zione.

. Vivere sempre da soli. Non desiderò mai di stare con altri né di dormire con qualcuno.

. Mangiare sempre frutta e verdure selvatiche, prima, e poi riso.

. Dormire sempre all’aperto. Non dormì mai in una capanna.

. Non mangiare mai carne, né burro fuso, condi­menti o olio.


Sono queste le dodici azioni che Mahākāśyapa conti­nuò a compiere per tutta la vita. Non desistette neppure dopo aver ricevuto l’Occhio e il Tesoro della Vera Legge.

Una volta il Buddha Śākyamuni  gli disse: “Sei diventato vec­chio, perciò dovresti mangiare il normale cibo dei monaci.” Il vene­rabile Mahākāśyapa rispose: “Se non avessi incontrato il Ta­thāgata in que­sto mondo, sarei rimasto un asceta chiuso in se stesso e avrei trascorso l’intera vita tra le montagne. Fortunata­mente ho incon­trato il Tathā­gata[2] e ho conseguito il Dharma. Non diritto di consumare il normale cibo dei monaci.” Śākyamuni  apprez­zò questo atteggia­mento.

Perseverando in queste regole, Mahākāśyapa divenne molto magro; sembrava che gli altri monaci non avessero cura di lui. Il Tathāgata lo mandò a chiamare e lo fece sedere vicino a sé, sulla piattaforma. Dobbiamo sapere che Mahākāśyapa era il mo­naco più anziano nella comunità di Śākyamuni. È impossibile descrivere in modo adeguato la prassi assidua da lui condotta per tutta la vita.

Il decimo Patriarca Harishiba[3] per tre anni non dormì, né si sdraiò per riposare e questo lo fece a più di ottant’anni; fu poi de­signato per trasmettere il grande Dharma. Non avendo mai sprecato il suo tempo durante tutto quel periodo, egli conseguì la suprema illuminazione del Vero Occhio. Si dice che Harishiba avesse trascorso sessant’anni nel grembo materno e che fosse nato coi capelli bianchi. Egli fece voto di non giacere mai sul fianco e fu perciò conosciuto come “L’asceta che non riposa mai.” Di notte, dalle sue mani irra­diava una luminosità che gli consentiva di studiare i sūtra; questo face­va parte dei suoi innati poteri sovranormali. “L’asceta che non riposa mai” rinunciò alla casa e agli abiti mondani all’età di ot­tant’anni.

Un giovane che viveva in città lo criticò dicendo: “Sei uno stupido vecchio. Perché mai ti mostri così superficiale? La ri­nuncia al mondo comporta due generi di impegni: lo zazen e la lettura dei sūtra. Sei troppo vecchio e debole per entrambe le co­se. La tua adesione al Samgha sarà fonte di problemi; tu ri­nunci al mondo soltanto per poter mangiare gratuitamente il ci­bo del Samgha.” Udite queste pesanti ingiurie, Harishiba si inchinò e disse a se stesso: “Faccio voto di non sdraiarmi mai, fino a quando non avrò cono­sciuto profondamente il Tripitaka,[4] reciso ogni attac­camento ai tre mondi,[5] sviluppato i sei poteri psichici,[6] e rag­giunto gli otto tipi di libe­razione.” Dopodiché, per tre anni, gior­no e notte, sedette e cam­minò in zazen, studiò i sūtra e adde­strò senza sosta la sua mente. Padroneggiò il Tripitaka, recise ogni desiderio per i tre mondi, conse­guì la vera saggezza, otte­nendo la venerazione di tutti. Da allora fu noto come “L’asceta che non riposa mai.” Egli trascorse sessant’anni nel grembo materno, prima di nascere. Aveva studiato la Via, nel grembo? Molto tempo dopo esser nato, all’età di ottant’anni, ri­nunciò al mondo e cominciò a studiare la Via. Erano perciò tra­scorsi 140 anni dal suo concepimento. Questo è veramente straordinario: nessuno può diven­tare così vecchio. Vecchio dopo la nascita, egli era vecchio già nel grambo materno. La gente allora lo criticava, ma egli seppe non rece­dere mai dal suo voto portando a compimento, nell’arco di tre brevi anni, la prassi della Via. Non scordate le parole “Osserva il saggio e agisci di conseguenza.”[7] Non siate me­schini con i vecchi.

Quel genere di nascita è difficile da comprendere. Si trattò di una nascita? Era vecchio o no? I quattro punti di vista[8] sono di­versi tra loro; le rispettive osservazioni raramente coincidono. L’ele­mento es­senziale è la determinazione a studiare assidua­mente la Via. Imparate che nell’ambito della prassi si possono vede­re vita e morte, e non che la prassi si trova nell’ambito di vita e morte. La gente d’oggi pensa che a trenta, sessanta, settanta o ottant’anni abban­donerà l’addestramento; ciò è sciocco. Contare anni e mesi a partire dalla nascita è solo una misurazione basata sulle convenzioni degli es­seri umani e non ha nulla a che fare con la Via del Buddha. Non pre­occupatevi dei concetti quali vecchio e giovane; cercate solo lo studio della Via. Agite come l’asceta che non riposava mai. La nostra vita non è altro che una manciata di sporci­zia rac­colta in un cimitero, perciò non dovremmo sopravvalu­tarla né attac­carci ad essa. Se siamo privi di determinazione chi avrà pietà di noi? Se vedete un cadavere abbandonato in un campo osservatelo da vicino e sviluppate la retta visione.

Al sesto Patriarca,[9] che era un taglialegna del Shinshu, non era stata impartita una regolare istruzione; aveva perso il padre da giovane ed era stato allevato dall’anziana madre. Egli la aiutava raccogliendo legna da ardere. Dopo aver udito recita­re un passo di un sū­tra mentre si recava in città, disse addio alla madre e partì alla ricerca del grande Dharma. Egli era un uomo eccezionale, un incomparabile ricercato­re della Via. Probabilmente soffrì di meno il secondo Patriarca[10] nel tagliarsi un braccio, che non il sesto Patriarca nel lasciare la ma­dre; è più dolo­roso spezzare il legame tra madre e figlio. Studiò come laico nella comunità di Ōbai;[11] per otto mesi, giorno e notte, pulì riso. La corretta trasmissione della ciotola e del kesa ebbe luogo a mezzanotte. Dopo aver ricevuto la Legge, si caricò il mortaio sulla schiena e continuò per otto mesi a pulire il riso. Anche quando ormai insegnava nei tem­pli, come Patriarca, non abbandonò mai il suo mortaio di pietra. Questo è un genere insolito di prassi assidua.

Baso, del Kōsei,[12] sedette in zazen per più di vent’anni; rice­vette il Sigillo della Trasmissione da Nangaku,[13] e insegnò ai suoi eredi nel Dharma a non trascurare mai lo zazen. Coloro che giunsero da lui per studiare lo zazen, certo ricevettero il sigillo della mente nella prassi dello zazen. Ogni qualvolta c’era da lavora­re nel tempio, Baso era il primo ad iniziare. Anche da vec­chio non si infiacchì. Oggi lo spirito di Baso è fortemente senti­to nella scuola Rinzai.

I Maestri Ungan[14] e Dōyō[15] studiarono sotto Yakusan;[16] fecero voto di non sdraiarsi mai e lo mantennero per quarant’anni. La loro mente era universa. Ungan trasmise la Legge al Grande Mae­stro Go­hon di Tōzan.[17] Tōzan disse: “Per recidere le passioni mi sono seduto in zazen per oltre vent’anni.” L’influenza della Legge di Ungan è, oggi, percepibile dappertutto.

Il Grande Maestro Kōgaku, del monte Ungo, soggiornò per qualche tempo in un eremo sul monte Sampō, ri­cevendo il cibo dagli dèi. Un giorno fece visita a Tōzan, e in tale occasione riuscì a chiarire la grande Via; una volta tornato nella sua capanna, gli dèi continua­rono a portargli il cibo cercandolo per tre giorni, senza trovarlo. Ungo non aveva più bisogno dell’aiuto degli dèi perché si trovava ormai nella grande Via del Buddha. Dovremmo riflettere su una così grande determi­nazione.

Il Maestro Zen Daichi,[18] del monte Hyakujō, ogni giorno la­vorò per la comunità, senza eccezione, a partire da quando era assi­stente di Baso fino al suo ingresso nel parinirvāna. Fu lui a lasciare il lodabile detto: “Un giorno senza lavorare, un gior­no senza mangiare.” Quando disse questo era già vecchio e la­vora­va duramente, come i giovani monaci. Gli altri si davano pena per lui e si crucciavano di ciò, ma egli rifiutò sempre di smettere di lavorare. Una volta i monaci na­scosero i suoi at­trezzi e non volevano consentire che egli li recupe­rasse. Allora Hyakujō, non potendo contribuire al lavoro collettivo, non volle più mangiare. Questa è l’origine del detto: “Un giorno senza lavorare è un giorno senza cibo.” Lo stile di Hyakujō, che si è conservato nella scuola Rinzai e che è fon­dato sulla prassi assidua, è popolare in tutto il paese. Quando Kyōsei[19] era il monaco superiore di un certo tempio, si dice che il dio di quelle terre non vedesse mai il suo volto, tanto era il suo assorbimento nella prassi.

Il Maestro Zen Gichū[20] del monte Sanpei, riceveva il cibo da­gli dèi; tuttavia, dopo che Gi­chū ebbe incon­trato il Maestro Daiten, gli dèi non fu­rono più in grado di vederlo.

Il monaco del monte Dai-i[21] disse: “Sono stato sul monte Isan per vent’anni.[22] Tutto il cibo che ho mangiato lì è tornato alla terra. Non ho mai studiato il Dharma lì, Per tutti quegli anni mi so­no limi­tato a prendermi cura di un bufalo d’acqua.” Do­vremmo sa­pere che ‘bufalo d’acqua’ rappresenta i suoi ven­t’anni di prassi assidua come mandriano di sé; Enchi aveva, un tempo, studiato nella comunità di Hyakujō. Riflettendo serenamente su quei vent’anni, non dovremmo dimenticare questa eredità. È probabile che si siano addestrati sul monte Isan, ma ben pochi hanno realizzato la prassi assidua del monte Isan.

Il monaco Jūshin,[23] il Grande Maestro Shinsai del Kan­nonin, nel Jōshū, cominciò a studiare e a ricercare la Via quan­do aveva ses­santun anni. Munito di un bastone e di una borraccia, viaggiò in lungo e in largo. Fu in quel tempo che disse: “Se incontrerò un bambino di sette anni la cui conoscenza sia supe­riore alla mia, lo interrogherò sulla Via; se invece incontrerò un cen­tenario che ne sappia meno di me, gli insegnerò la Via.” Per più di vent’anni studiò la Via sotto Nansen, in questo modo. A ottant’anni divenne sacerdote del Kannonin, nel Jōshū, e insegnò agli uomini e agli dèi per quarant’anni. In tutto quel tempo non scrisse mai alle famiglie che facevano capo al suo tempio per chiedere denaro. Il suo monastero era piccolo, privo della sala anteriore e di quella posteriore. Una volta una delle gambe della piatta­forma si spezzò ed egli la rappezzò con un pezzo di legno carboniz­zato, continuando poi ad utilizzare quella piatta­forma per anni. L’addetto al tempio avrebbe voluto riparare la gamba spezzata, ma egli si oppose sempre. Dobbiamo studiare lo stile di questo antico Bud­dha.

Jūshin si stabilì nel Jōshū quando aveva ormai più di ot­tant’anni; egli ricevette il Dharma dal suo Maestro e lo tra­smise cor­rettamente ad altri. Tutti lo consideravano un vecchio Bud­dha. Coloro che non hanno ricevuto la corretta trasmissione della vera Legge sono assai inferiori a lui. Coloro che hanno me­no di ottant’anni sono fisica­mente ben più forti, ma sono an­cora immaturi e non possono essere paragonati ad un simile vec­chio saggio. Dobbiamo concentrarci sugli sforzi propri di una prassi assidua. Per quarant’anni egli non mostrò il mi­nimo attac­camento ai beni del mondo, anche quando era senza cibo. In simili occa­sioni raccoglieva castagne, ghiande e altri frutti sel­vatici, oppure man­giava un giorno sì e un giorno no. Questo è davve­ro il retto stile di un vero monaco e noi dovremmo seguire il suo esempio.

Una volta, Jūshin disse ai monaci: “Se non uscite dal mona­stero per tutta la vita e non pronunciate una sola parola per cin­que o dieci anni, nessuno vi considererà sordi e muti. Cos’altro mai possono fare i Buddha per voi?” Queste sono le parole d’oro della prassi assidua. Bi­sogna sapere che anche se non parliamo per cinque o dieci anni e sembriamo diventati pazzi, senza lasciare il monastero la prassi assi­dua ci preserva dall’essere consi­derati sordi e muti.

Questa è la Via del Buddha. Se non udiamo la voce della Via, non c’è il principio per cui “Non parlare non significa essere sordo e muto.” Comunque, l’es­senza della prassi assidua è non la­sciare il monastero; non la­sciare il mona­stero è essere liberati dalle pa­role. Gli stupidi non sanno e non possono esprimere il non essere sordi e muti. An­che se nulla li ostacola, non possono mostrare sordità e muti­smo.

Peccato che nessuno ci abbia insegnato che non parlare non significa essere sordi e muti. Tranquillamente dedicatevi alla prassi assidua, senza mai lasciare il monastero. Non lasciatevi tra­sportare qua e là, a oriente e a occidente, dal vento. Se vi­viamo cinque o dieci anni in un monastero troviamo la Via che è al di là di voce e forma, e siamo così in grado di conoscere a fondo e comprendere simili espressioni. Considerate che la prassi assidua è insita nel più breve istante. Non pensate che il non parlare sia inutile. Sia che siate nel monastero, o fuori dal monastero, o in un monastero introvabile, o nel monastero del mondo, studiate in questo modo.

Il monte Daibai si trova nel Keigenfu. Su questa mon­ta­gna c’è un monastero chiamato Goshōji, fondato dal Maestro Zen Hōjō.[24] Que­sto maestro proveniva dal distretto di Jōyō, e aveva studiato nella comunità di Baso.[25] Una volta, egli chiese al Maestro Ba­so: “Cos’è il Buddha?” Baso rispose: “La nostra mente è Bud­dha.” Udendo queste parole, Hōjō si risvegliò all’istante. Si ritirò sulla cima del monte Dai­bai e non rivolse mai la parola ad altri. Hōjō se ne stava da solo in una capanna di frasche, si nutri­va di pigne e si copriva con foglie di loto raccolte in un piccolo sta­gno sulla montagna. Si addestrò sulla Via dello zazen per più di tren­t’anni. Non sentì mai parlare di questioni mondane e si scordò completamente di giorni e mesi; la sua unica guida fu il mutare delle stagioni sui monti. Molti ritenevano che la sua vita fosse straordinariamente penosa. Se­dendo in zazen si pone­va sulla testa una colonnina di ferro alta otto pollici, come fosse una coro­na, prefig­gendosi di non farla cadere; tale espe­diente gli impe­diva di sci­vo­lare nel sonno.

Questa colonnina esiste an­cora sulla monta­gna, ed è custodita nel magazzino. Egli si addestrò as­siduamente in questo modo, fino alla morte. Un monaco della comunità di Enkan,[26] una volta salì sulla montagna alla ricerca di un pezzo di legno per farne un bastone; smarrì però il sentiero e scoprì così, ca­sualmente, l’eremo del Maestro. Incontratolo, gli chiese: “Da quanto vivi su questa montagna?” Hōjō rispose: “Conosco solo i mute­voli colori dei monti.” Il monaco chiese: “Dov’è il sentiero che porta fuori da questa montagna?” Il Maestro rispose: “Segui il corso del tor­rente.” Il monaco, confuso da tutto questo, tornò e rac­contò l’accaduto ad Enkan. Il Maestro Enkan disse: “Una volta, nel Kōseishi, incontrai un mo­na­co e da allora non ho più sentito parlare di lui; potrebbe esse­re quello che hai visto tu.” Enkan inviò quindi nuovamente il mo­naco sulla montagna, per chiedere a Hōjō di scendere, ma questi rifiutò. In risposta, pronunciò questo gāthā:


Nella fredda foresta vi è un albero rinsecchito,

rotto, e abbandonato.

Ha conosciuto molte primavere,

ma il suo  cuore  resta impassibile.

Il taglialegna che passa, nemmeno si volta,

perché dovrebbe interessarsene il falegname?”


Inviò questa risposta al Maestro Enkan e si rifugiò in un luogo ancora più nascosto tra le montagne, dove compose un altro gāthā:

 

  “Le piante di loto dello stagno

  procurano innumerevoli abiti.

  Le pigne di cui cibarsi non possono essere contate.

  Ora la gente di mondo ha scoperto la mia dimora.

  Dunque, devo trasferire la mia capanna

  in un luogo più celato tra i monti.”

 

In un’altra occasione, Baso mandò un monaco da Hōjō per saggiarne il livello di realizzazione. Questi gli chiese: “O mo­naco, un tempo hai studiato sotto Baso. Perché vivi nascosto tra i monti?” Il Maestro Hōjō rispose: “Baso una volta mi disse: ‘La nostra mente è Buddha’. É per questo che vivo qui.” Il monaco disse: “Ultimamente, la Legge del Buddha è un po’ diversa.” Hōjō gli chiese: “In che senso è diversa?” Il monaco rispose: “Ora Baso insegna: ‘Niente mente, niente Buddha’.” Hōjō disse: “Quel vec­chio mi sconcerta! Ma anche se dice ‘Niente mente, niente Bud­dha’, io so che ‘La nostra mente è Buddha’.” Il monaco ri­ferì questa risposta a Baso ed egli osservò: “La prugna è ora matu­ra.” Questa storia è ben conosciuta sia dagli uomini, sia dagli dèi.

I migliori e più noti discepoli di Hōjō furono Tenryū[27] e Gu­tei. Il coreano Kyachi trasmise il Dharma di Hōjō e divenne il primo Patriarca di Corea. Tutti i maestri e Patriarchi coreani di­scendono da Kyachi. Fino al momento della sua morte, una tigre e un elefante lo servirono in perfetta armonia; dopo il suo in­gresso nel nirvāna, la tigre e l’elefante raccolsero pietre e fango per erigere uno stūpa in suo onore. Questo stūpa è anco­ra oggi visibile presso il tempio di Goshōji. La prassi assidua di questo mae­stro è stata altamente elogiata, tanto nel passato che oggi, dai più qualificati insegnanti del Dharma. Coloro che pos­siedono una co­noscenza inferiore, non ne sanno abbastanza neppure per lodar­lo. Chiunque ritenga che nel mondo del desiderio, della notorietà e della ricchezza, possa esistere il Dharma del Buddha, questi è uno sciocco, dalla mente ristretta.

Il Maestro Zen Hōen,[28] del monte Goso, disse: “Quando il mae­stro[29] del mio maestro divenne abate del monte Yōgi, il tempio era completamente in rovina; la pioggia filtrava dal tetto e il vento sof­fiava attraverso le fessure. Durante l’inverno l’edificio per po­co non crollò; il pavimento degli alloggi dei monaci era coperto di neve e di chicchi di grandine. Era molto difficile vi­vere lì; la neve rendeva an­cora più bianchi i capelli dei monaci brizzolati, le loro lunghe soprac­ciglia testimoniavano le loro privazioni. I monaci riuscivano a mala­pena a sedere in zazen. Un monaco chiese al maestro di riattare il mo­nastero, ma Yōgi ri­fiutò dicendo: “Il Buddha ci ha inse­gnato che tutte le cose sono impermanenti. Le alte colline e le pro­fonde vallate mutano con­tinuamente. Come possiamo desiderare di ottenere qualcosa? Sono soddisfatto di ciò che ho. Tutti gli asceti del passato hanno studiato la Via sotto gli alberi e sul suolo intriso di ru­giada. Questa è una eccellente usanza del passato ed è l’essenza della vacuità. Per studiare la Via voi avete rinunciato al mondo ma il vostro comportamento è su­perficiale. Abbiamo non più di quaranta o cinquant’anni da de­dicare allo studio: chi ha il tempo di costruire un edificio son­tuoso?” Questa fu la risposta del Maestro. Il giorno dopo, salito sulla piattaforma dell’insegnamento, disse all’assemblea dei monaci: “Quando sono diventato abate del monte Yōgi, tetto e muri erano già completamente in rovina, e la neve ricopriva il pavimento. A causa del freddo pun­gente tutti curvano le spalle, tirano indietro il mento e so­spirano. Mi è stato chiesto di ri­parare l’edificio ma, ricordando il rigore dei nostri predecessori che vivevano all’aperto, mi sono rifiu­tato.” Malgrado ciò, molti monaci provenienti da ogni parte del paese chiede­vano di poter entrare nella sua comunità. Constatare che i veri ricercatori della Via erano così numerosi dovrebbe ren­derci fe­lici. Tenete sempre a mente le parole di questo maestro.

Il Maestro Hōen una volta disse: “La prassi non può andare al di là del pensiero; il pensiero non può oltrepassare la prassi.” Que­sta affermazione è molto importante. Pensateci gior­no e notte, realizza­tela al mattino e la sera. Non lasciatevi so­spin­gere qua e là dal vento. Qui in Giappone neppure il palazzo dell’Imperatore e le residenze dei ministri sono un granché fa­stose: semplici edifici in legno di pino bianco. Come possono dunque vivere in splendide abitazioni coloro che per studiare la Via, hanno rinunciato al mondo? Se gli edifici sono lussuosi i monaci verranno fuorviati e sarà difficoltoso trovarne anche uno solo che conduca una vita integra. Non c’è nulla da ridire nel voler utilizzare un edificio già esistente, ma non cercatene mai uno mi­gliore. Tutti gli asceti del passato sono vissuti in capan­ne di frasche o in costruzioni di legno, amando tali luo­ghi. Tutti i loro discendenti dovrebbero seguirne l’esempio senza frainten­derlo.

I cinesi Kō, Gyō e Shun[30] che erano uomini di stato e semplici laici, vivevano anche essi in capanne di frasche; essi hanno creato un pre­cedente per tutti noi. Il primo Ministro Shishi, della dinastia Shin, disse: “Se volete vedere la prassi dell’Imperatore Kō guardate il suo pa­lazzo. Se poi volete vedere la prassi di Gyō e Shun, guardate le loro dimore. Il tetto del palazzo imperiale è di paglia, e così pure quello della casa di Shun.”

Dobbiamo sapere che le abitazioni di tali saggi ave­vano il tetto di paglia. Se valutiamo Kō, Gyō e Shun in rappor­to a noi, con­statiamo che essi ci sopravanzano più di quanto il cielo sopravanzi la terra. Il tetto delle loro case era di paglia; se i laici vivono in capanne di frasche, come possono i monaci giustifi­care il fatto di vivere in edi­fici lussuosi? È un’idea ver­gognosa. Gli antichi vivevano sotto gli al­beri e trascorrevano la vita nelle foreste. Tanto i laici che i monaci amavano vivere in tali luoghi. L’Imperatore Kō era allievo del taoista Kōsei,[31] che viveva in una caverna sul monte Kōdō. I re e i ministri ci­nesi della grande dinastia Sung hanno trasmesso questo genuino in­se­gnamento.

Ecco perché tali persone pur conducendo la loro esistenza nel mondo di polvere, sono in grado di vivere con nobiltà e i monaci sono loro inferiori. I monaci sono persino più mondani dei laici. Molti tra i Buddha e i Patriarchi sono venerati dagli dèi. Dèi e dèmoni non possono eguagliare chi abbia conse­guito la Via. Dobbiamo compren­dere chiaramente questo punto. Se dèi e dèmoni si addestrano nello stile dei Buddha e dei Patriarchi, si avvicinano strettamente a Buddha e Patriarchi. Se Buddha e Patriarchi attestano se stessi quali Buddha e Pa­triarchi, allora tra­scendono dèi e dèmoni; la differenza esistente tra loro è tremen­da.

Nansen[32] disse: “La mia prassi era debole, dèi e dè­moni se ne accorsero.” Se gli dèi e i dèmoni che non si addestrano vi scorgono, significa che la vostra prassi è debole.

La divinità locale preposta alla protezione del tempio della comunità del Maestro Zen Wanshi Shōgaku,[33] sul monte Tendō disse: “Ho sentito dire che il Maestro ha vissuto per ol­tre dieci anni su que­sta montagna trascorrendo la maggior parte del tempo nel suo alloggio. Non ho mai visto né udito come fosse fatto. Sicuramente è un uomo della Via.”

Originariamente, gli edifici sul monte Tendō erano po­chi; Wanshi restaurò i templi taoisti, i monasteri femminili e gli edifici scolastici che vi si trovavano, facendone l’attuale Keitokuji. Dopo la sua morte, un certo Ōhakushō, funzionario governativo di alto rango, ne scrisse la biografia. Qualcuno gli disse: “Dovresti anche scrivere che fu Wanshi a restaurare i vec­chi templi taoisti, i monasteri femmi­nili, gli edifici scola­stici, e che fondò l’attuale monastero del monte Tendō.” Ōhakushō disse: “Non è necessario. Queste cose non hanno alcun rappor­to con la sua capacità come monaco.” La gente elogiò Ōha­kushō.

Dovremmo essere consapevoli che costruire templi e monu­menti sono azioni che hanno a che vedere con il mondo, non con la virtù di un monaco. In linea di principio, entrando nella Via del Bud­dha trascendiamo i tre mondi degli uomini e degli dèi. Dovremmo in­vestigare questo con attenzione. Rettifi­ca­te corpo, parola e mente, e addestratevi con ardore. Il merito della prassi assidua dei Buddha e dei Patriarchi reca in sé la capacità di salvare uomini e dèi; tuttavia, uo­mini e dèi non sanno di esse­re aiutati dalla prassi assidua dei Buddha e dei Pa­triarchi. Nell’agire la prassi assidua della grande Via dei Bud­dha e dei Patriarchi, non dovremmo discutere su cose quali la superiore e l’inferiore virtù, la stupidità o l’intelligenza, l’acutezza o l’ottusità, e così via. Dovremmo sempre essere ben at­tenti a rifug­gire fama e ric­chezza e a non essere attaccati alle cose del mondo. Non sprecate tempo; concentratevi solo sulla prassi. Non vivete nell’attesa della grande illuminazione; la grande illu­minazione è l’azione quotidiana, è bere tè e mangia­re riso.

Non cercate né l’illuminazione né l’illusione: ecco il gioiello nel fermaglio per capelli.[34] Staccatevi da ogni cosa: la vostra città natale, i le­gami creati dalla gratitudine, dalla fama, dalla ric­chezza, dagli averi e dalla vostra famiglia; distaccatevi dal desiderio per tali cose. Possedere o non possedere: è chiaro che dobbiamo se­pa­rarci da entrambi. Prassi assidua significa non essere attac­cati ad al­cunché. Abbandonate notorietà e ricchezze. Addestratevi incessantemente su una cosa sola e si svilupperà la prassi assidua della vostra vita buddhistica. Così la prassi assidua intensifica la prassi assidua, con un’ulteriore prassi assidua. Onorate e rispet­tate il corpo e la mente che padroneggiano una simile prassi assidua.

Il Maestro Zen Kanchū[35] disse: “Più che parlare di un chilome­tro, agite nella prassi un metro; più che parlare di un metro, agite nella prassi un solo centimetro.” Benché questo detto possa sem­brare un ammonimento volto a coloro che ignorano la prassi assidua e dimenticano come studiare la Via del Buddha, in realtà non valuta negativamente il fatto di parlare di un chilometro. La sostanza è che agire nella prassi un metro è più efficace che parlare di un chilometro. È al di là della mi­sura. Anche se un granello di polvere e l’immenso monte Su­meru so­no diversi per grandezza, ognuno ha la sua propria mi­sura. Ognuno è completo. Lo stesso vale per la prassi assidua. La frase citata non è soltanto l’opinione personale di Kanchu, ma è una verità universale.

Il Grande Maestro Tōzan Gohon[36] disse: “Dai la spie­ga­zione di quello che non sai fare, fai ciò di cui non sai dare la spiegazione.” Queste sono parole dell’Alto Patriarca. Il punto es­senziale è che agire nella prassi equivale a spiegare, e spiegare equi­vale ad agire nella prassi. Dunque, se voi passate tutto il giorno a spiega­re, si­gnifica che agite nella prassi per tutto il giorno. Per questo faccia­mo ciò che è impossibile da fare e spieghiamo ciò che è impossibile da spiegare.

Il Grande Maestro Kōkaku[37] del monte Ungo, interpre­tava la frase in questo modo: “Mentre spieghiamo non facciamo, e quando facciamo non c’è modo di spiegare.” Questo non significa che prassi e spiegazione non esistono; il tempo dedicato allo spiegare è il non lasciare il monastero per tutta la vita.[38] Fare, è lavarsi i capelli e stare dinnanzi a Seppō.[39] “Quando spieghiamo non c’è bisogno di fare; quando facciamo non c’è modo di spiegare.” Investigate ciò con atten­zione.

C’è un detto tramandato dagli antichi Buddha e Pa­triar­chi: “Se anche viviamo cent’anni ma non abbiamo la com­pren­sione pro­pria del Buddha, siamo inferiori a chi ha conse­guito il risveglio sia pur vivendo un solo giorno.” Questo non è stato affermato soltanto da uno o due Buddha, ma da tutti i Buddha; è lo spirito della vera prassi, la prassi del Buddha. Nel corso di centomila kalpa di continuo alternarsi di vita e morte, un solo giorno di prassi assidua è il vero gioiello inca­stonato nel ferma­capelli, è lo specchio originario del risveglio. È un giorno di cui rallegrarsi. Lo stesso potere della prassi assidua si ralle­gra. Quando il potere della prassi assidua è in­sufficiente non si pos­sono ricevere le ossa e il midollo dei Buddha e dei Patriarchi, né se ne può scorgere il volto origina­rio.

Il volto originario, le ossa e il midollo dei Buddha e dei Pa­triarchi non vanno, non sembrano andare, non sembrano venire, e non sembrano nemmeno non venire. Dobbiamo ereditare la prassi assidua di un sin­golo giorno. Per questo, ogni giorno è prezioso. Chi vive inutilmente fino a cent’anni lesina i giorni e i mesi. È triste usare così malamente il corpo. Un solo giorno di prassi as­sidua riscatta cent’anni di schia­vitù dei sensi. Un giorno di vita corporea è il bene più grande che si possa ottenere. E dunque, se viviamo per un solo giorno e realiz­ziamo la funzio­ne propria di tutti i Buddha, quell’unico giorno è più utile che rinascere per innumerevoli kalpa.

Dunque, non sprecate neppure un giorno, se non avete risolto definitivamente la que­stione di vita e morte. Un sin­golo giorno è un grande tesoro che deve essere altamente ap­prezzato, molto di più di una grande giada o dei gioielli di un drago. I saggi del passato consi­deravano ogni singolo giorno di gran lunga più che il loro corpo o la loro vita. Dovremmo ri­flettere quie­tamente su questo. Scopriremo allora qual­cosa di più prezioso che non il gioiello del drago che esaudisce ogni deside­rio, o di un grande pezzo di giada. Di cent’anni di vita, neppure un singo­lo giorno può essere richiamato o sostituito. Esiste forse una qualche azione o metodo che ci consenta di re­cuperare un solo giorno? Neppure nel passato si è mai regi­strata una cosa simile. Così, non sprecando stupidamente tempo, giorni e mesi avvolgeranno il nostro corpo come una pelle. Inoltre gli asceti e i saggi del passato stimavano ogni giorno e mese, più della loro vista e del loro paese. Se spre­chiamo il tempo, ca­dremo prigio­nieri della fama e della ric­chezza del mondo flut­tuante. Evitando tutto ciò, vivremo nella Via e, se la nostra determinazione è forte, non trascorre­remo un solo giorno inutilmente. Addestratevi e proclamate sola­mente la Via.

Dunque, tenete a mente che Buddha e Patriarchi non dedicarono neppure un solo giorno ad azioni prive di valore. Du­rante i quieti giorni primaverili, sedete accanto ad una fi­nestra luminosa e ri­flettete su questo. Nelle autunnali notti di amabile pioggia, fermatevi in una semplice capanna di legno e concentra­tevi sulla prassi. Simili tesori ci irritano perché la nostra prassi è carente. Come può esserci sottratta la virtù propria dell’addestrarci nel tempo? Non un giorno ci è sottratto, ma se sprechiamo un solo momento, la virtù di numerosi kalpa ci è tolta. Qual è la causa del conflitto tra noi stessi e il tempo? È il risentimento che nasce quando la nostra prassi è insuffi­ciente. Non siate troppo intimi a voi stessi: questo genera ran­core contro se stessi.

Anche i Buddha e i Patriarchi hanno vincoli di grati­tu­dine e amore e, tuttavia, vi rinunciano. Essi hanno numerosi rap­porti ma li ab­bandonano. Sia pur rimpiangen­doli, non possiamo invidiare i rapporti e i vincoli sostenuti da altri. Se non tron­chiamo i vincoli di gratitudine e amore, quegli stessi vincoli ci stroncheranno. Lo dobbiamo saper fare; se siamo soggetti a vincoli di gratitudine e amore, li dobbiamo la­sciar cadere.

Il Maestro Zen Nangaku Ejō,[40] che aveva studiato sotto Sōkei per più di quindici anni, ne ricevette la trasmissione; fu come l’acqua versata da una ciotola all’altra. Tutti noi dovremmo seguire la prassi dei nostri predecessori. Nel corso di quindici anni di studio, Nangaku incontrò molte difficoltà ma mantenne incontaminata la propria prassi.

Questo è uno specchio per i suoi discendenti. Nel focolare non c’era carbone, e dormiva da solo in una stanza spo­glia. Le fredde notti non erano rischiarate dalla luce di nessuna can­dela, e così egli sedeva in zazen presso la finestra, alla luce della luna. Benché non avesse alcuna comprensione intellet­tuale, la sua prassi supera qualsi­voglia altra forma di studio. Questa è la vera prassi assidua. General­mente, abbandonando la sete di fama, ricchezza e profitto ci si può concentrare sull’incremen­to, giorno dopo giorno, della virtù della prassi assidua. Questo non do­vremmo dimenticarlo mai. Cercare di spie­gare le questioni essenziali a parole, è molto difficile;[41] questa fu l’esperienza di Nangaku dopo otto anni di prassi assidua. Un simile addestramento è raro tanto nel passato quanto oggi; sia i saggi che gli sciocchi dovrebbero scoprire la prassi assidua.

Senshū,[42] un imperatore della dinastia Tang, era il se­condo­genito dell’Imperatore Kenshū. Egli era ricco di talento già da bam­bino e amava concentrare la mente seduto nella posizione completa del loto. Trascorreva il tempo nel palazzo, seduto in zazen. Un giorno, durante il regno di Bokushū,[43] suo fra­tello mag­giore Senshū finse di essere lui l’imperatore e, per scherzo, indirizzò ai ministri il saluto ufficiale del mattino. Nel ve­dere ciò, i ministri pensarono che fosse impazzito e lo riferi­rono a Bokushū. Ma Boku­shū elogiò Senshū dicendo: “Mio fratello è il più intelligente della fa­miglia.” A quel tempo Senshū aveva solo tredici anni.

Bokushū morì nell’824. Lasciò tre figli: Keishū, Bunshū e Bushū. Fu Keishū che succedette a suo padre, ma morì tre anni dopo. Bunshū, che ne aveva preso il posto, fu rovesciato dopo un an­no, e così Bushū, il più giovane, salì al trono. Bushū re­gnò dall’841 all’846 e sotto di lui il Dharma del Buddha fu continua­mente discriminato. Durante tutto questo tempo Senshū visse in campa­gna. Bushū riteneva che lo zio fosse pazzo e così de­cise di punirlo per aver, tanto tempo prima, pre­teso di essere impera­tore, mentre Bokushū era al potere. Percosse dunque Senshū fino a ucciderlo e trasportò poi il suo corpo nel giar­dino di Koka, e ci defecò sopra. Ma Senshū tornò in vita, lasciò la sua terra natale e divenne allievo del Maestro Zen Kyōgen Chikan,[44] che gli rasò il capo e ne fece un monaco novizio. Senshū tuttavia non prese i pre­cetti per diventare sacerdote e vagò di luogo in luogo, assieme a Kyō­gen, come un mendicante. Un giorno essi giunsero sul monte Ro e il Maestro Chi­kan scrisse una breve poesia, al riguardo di una cascata:

 

L’acqua precipita sopra il dirupo

erodendo le rocce ai lati e sul fondo,

senza esitare.

Da lontano possiamo vedere

che la bocca della cascata è molto alta.

 

Chikan mostrò poi la poesia a Senshū per saggiarne la compren­sione. Senshū aggiunse questi versi:

 

Possiamo forse arrestare l’acqua che scorre

lungo la valle?

Alfine raggiunge l’oceano dove diventa

una grande onda.

 

Leggendo questi versi Chikan comprese che Senshū non era una persona comune. In seguito Senshū si unì all’assemblea guidata dall’In­se­gnante Nazionale Enkan Sai-an,[45] dove fu nominato Shoki.[46] In quel perio­do, il Maestro Zen Ōbaku[47] svolgeva le funzioni di sacer­dote capo sotto Enkan, e così Ōbaku e Senshū lavoravano in­sieme nel mo­nastero.

Un giorno, Ōbaku entrò nella Sala del Buddha e si prostrò. Senshū gli chiese: “È stato detto che l’originario Dhar­ma del Buddha non può essere conseguito e che non si dovrebbero cercare né il Bud­dha, né il Dharma, né il Samgha. Venerabile, perché dunque ti prostri davanti al Buddha?” Immediatamente Ōbaku schiaffeggiò Senshū di­cendo: “Non cerco Buddha, Dharma e Samgha, perciò mi prostro.” E di nuovo schiaffeg­giò Senshū. Quest’ultimo disse: “Non essere tanto sgar­bato.” Ōbaku, sapendo che Senshū era attaccato all’idea di non-attacca­mento ai Tre Te­sori, disse: “Questo è il luogo in cui esiste l’ineffabile. Cos’altro c’è da spiegare in termini di sgarbato o gen­tile?” e, così dicendo gli affibbiò un terzo schiaffo. In quel momento Senshū si risvegliò e il dialo­go ebbe così fine. Senshū infine tornò in patria e divenne imperatore dopo la morte di Bushū. Bushū aveva contrastato il Dharma del Buddha, Senshū lo so­stenne e contribuì a diffonderlo. Anche dopo essere salito al trono, continuò a sedere in zazen coltivando la concentrata e pura prassi iniziata nella Valle di Rozan. Più tardi Senshū morì, ma la sua determinazione nello stu­diare il Dharma risplendette ovunque. Il suo intento era solido come un diamante e senza eguali nella storia: fu real­mente prassi assidua.

Il monaco Seppō Gison[48] ricevette dall’imperatore il ti­tolo di Grande Insegnante Shinkaku. Dopo aver risvegliato la mente che cerca il Buddha, studiò e soggiornò in diversi mona­steri, sempre lavo­rando come capo cuoco. Egli portava con sé un mestolo per l’acqua e si occupava dei monaci. Benché fosse sempre af­faccendato non mancò mai di sedere in  zazen, giorno e notte. Conti­nuò così fin quando non aprì un proprio dōjō[49] sul monte Seppō. Egli visse e morì in zazen.

Nel periodo in cui era monaco itinerante fece visita a Tōzan Ryokai[50] nove volte, e incontrò Tōsu Gisei[51] tre volte. Era un non co­mune ricercatore della verità. Nel parlare di una rigo­rosa e serena prassi assidua, molti menzionano l’alto li­vello di addestramento di Seppō. Il suo punto di partenza nel cercare la Via fu lo stesso di tutti gli altri, ma la sua determi­nazione viva e penetrante, la sua saggezza e la prassi assidua lo aiutarono ad andare più lontano degli altri. Gli studenti di quell’epoca veniva­no esortati a studiare la pratica di Seppō; se ripen­siamo ad essa e se ricordiamo lo studio condotto da Seppō nei diversi luoghi, nonché il suo sforzo e il suo coraggio, allora possiamo comprendere co­me la sua penetrante prassi, pura come neve, traesse origine dalle sue esistenze precedenti.

Gli studenti, investigando sotto un maestro ri­svegliato, cercano di porre questioni reali ma è ben difficile dare ri­sposte veritiere. Quando diciamo studenti possiamo rife­rirci a venti, trenta o centi­naia di migliaia di ricercatori. Uno studente che cerca la verità sotto la guida di un maestro, deve praticare giorno e notte. Se il maestro espone la verità ma lo studente non ha sufficiente comprensione e permane così tra loro una consi­derevole disparità, il maestro dovrebbe interrom­pere l’insegna­mento. Può accadere che alcuni studenti tra i più anziani si pensino monaci di elevata virtù e comincino a diventare frivoli, interrompendo l’addestramento; il loro comportamento ostacolerà l’in­gresso di nuovi studenti nel gruppo degli allievi. Tra gli stu­denti, alcuni saranno in grado di seguire profondamente la veri­tà inse­gnata dal maestro, conseguendo così la Via del Buddha, altri no.

Il tempo vola più veloce di una freccia e i nostri corpi svani­scono più in fretta di una goccia di rugiada. È ve­ramente un peccato che alcuni, sia pure venuti a contatto con un maestro Zen, non si deci­dano a studiare la Via. Altre volte, invece, uno studente che vuole ap­prendere la verità, non riesce a trovare un vero maestro. Situazioni spiacevoli di questo tipo esistono; io ne ho viste diverse nel corso della mia vita.

Generalmente, un eminente uomo di religione è in grado di esaminare e conoscere i suoi allievi, ma è già capitato che degli studenti, impegnati in un serio addestramento, abbiano avuto la sorte di incon­trare molte difficoltà nel trovare tale emi­nente uomo di religione. Molto tempo, fa Seppō fece visita a Tōzan ben nove volte, e per tre volte si recò da Tōsu. Questo ci mostra come possa essere difficile incontrare il giusto maestro. Dobbiamo essere grati per l’opportunità di vivere serenamente nel Dharma della prassi assidua, e dolerci se non riusciamo ad addestrarci sinceramente, quando ne ab­biamo la possibilità.



Scritto il 18 gennaio 1240.

Revisionato e ricopiato da Ejō l’8 marzo 1240.



[1] I quattro elementi sono: terra, acqua, fuoco e vento. I cinque skanda o aggregati sono: rūpa (il corpo-forma), vedanā (la sensa­zione), samjñā (la percezione, la nozione), samskarā (le impressioni risultanti, gli elementi della coscienza, lett. “I formati e i formanti”), e vijñāna (la coscienza individuale, la conoscenza discriminante). 

[2] Lett. “Così arrivato”.

[3] Il Venerabile Pārśva, era chiamato Santo Fianco per il voto di non dormire mai sulla schiena, posizione in cui vengono composti i cadaveri.

[4] Tripitaka: i tre canestri dell’Insegnamento. Sono suddivisi in Sūtra (i discorsi), Vinaya (i precetti) e Abhidharma (i commentari).

[5] Il Dhammapada riporta la divisione in kāma-loka (il mondo retto dal desiderio dei sensi), rūpa-loka (il mondo della forma sottile), ed ārūpa-loka (il mondo privo di forma).

[6] Il potere di determinazione (per divenire multipli), il potere di trasformazione (per adottare un’altra forma), il potere di formazione di un corpo mentale, il potere di conoscenza penetrante (per restare salvi nel pericolo), il potere di concentrazione penetrante (per acquisire una visione profonda), il nobile potere (per dimorare imperturbabilmente ed equanimamente). Sono uno dei sei poteri mistici. Vedi nota 2, pag. 898.

[7] Una massima di Confucio.

[8] Quattro punti di vista: degli esseri umani, dei dèmoni, dei pesci e degli dèi, che vedono l’acqua rispettivamente come acqua, come pus, come un palazzo, e come un filo di perle.

[9] Il Maestro Daikan Enō (638-713), successore del Maestro Daiman Kōnin. Spesso è chiamato semplicemente Sesto Patriarca o Sōkei, dal monte su cui dimorava. [Ta-chien Hui-neng]

[10] Il Maestro Taiso Eka (487-593), il successore del Maestro Bodhidharma. Noto anche come Jinkō Eka. [Shen-kuang Hui-k’o]

[11] Il Maestro Daiman Kōnin (688-761), successore del Maestro Dai-i Dōshin e quinto Patriarca in Cina. Noto anche come Ōbai. [Ta-man Hung-jen]

[12] Il Maestro Baso Dōitsu (704-788), che è nella linea di trasmissione del Maestro Daikan Enō.  Daijaku Zenji è il suo titolo postumo. [Ma-tsu Tao-i]

[13] Il Maestro Nangaku Ejō (677-744), uno dei successori del Maestro Daikan Enō. [Nan-yüeh Huai-jang]

[14] Il Maestro Ungan Donjō (782-841), uno dei successori del Maestro Yakusan Igen. [Yün-yen T’an-sheng]

[15] Il Maestro Ungo Dōyō (835-902), uno dei successori del Maestro Tōzan Ryōkai. Kōkaku Zenji è il suo titolo postumo. [Yün-chü Tao-ying]

[16] Il Maestro Yakusan Igen (745-828), uno dei successori del Maestro Sekitō Kisen. [Yao-shan Wei-yen]

[17] Il Maestro Tōzan Ryōkai (807-869), nella linea di trasmissione del Maestro Yakusan Igen. [Tung-shan Liang-chieh]

[18] Il Maestro Hyakujō Ekai (749-814), successore del Maestro Baso Dōitsu. [Pai-chang Huai-hai]

[19] Il Maestro Kyōsei Dōfu (864-937), uno dei successori del Maestro Seppō Gison. [Ching-ch’ing Tao-fu]

[20] Il Maestro Sanpei Gichū (781-872), successore del Maestro Daiten Hōtsu (?-819). In un primo tempo studiò sotto il Maestro Shakkyō.

[21] Il Maestro Chōkei Dai-an (793-883), uno dei successori del Maestro Hyakujō Ekai. Enchi Zenji è il suo titolo postumo. [Chang-ch’ing Ta-an]

[22] Quando il Maestro Isan divenne maestro del monte Daii, il Maestro Enchi lo aiutava nella conduzione del tempio. Alla morte di Isan, il Maestro Enchi divenne secondo maestro del monte Daii.

[23] Il Maestro Jōshū Jūshin (778-897), uno dei successori del Maestro Nansen Fugan. [Chao-chou Ts’ung-shen]

[24] Il Maestro Daibai Hōjō (752-839), nella linea di trasmissione del Maestro Baso Dōitsu. [Ta-mei Fa-Ch’ang]

[25] Il Maestro Baso Dōitsu (704-788).

[26] Il Maestro Enkan Saian (?-842), nella linea di trasmissione del Maestro Baso Dōitsu. [Yen-kuan Ch’i-an]

[27] Il Maestro Kōshū Tenryū (?), che è nella linea di trasmissione del Maestro Baso Dōitsu. Successore del Maestro Dai bai Hōjō (752-839). [Hang-chou T’ien-lung]

[28] Il Maestro Goso Hōen (?-1104), nella linea di trasmissione del Maestro Yōgi Hōe. [Wu-tsu Fa-yen]

[29] Il Maestro Yōgi Hōe (992-1049), nella linea di trasmissione del Maestro Rinzai Gigen. [Yang-ch’i Fang-hui]

[30] Si tratta di tre imperatori dell’antica Cina che regnarono su un arco di tempo che va dal 2697 a.C., al 2205 a.C..

[31] Si veda il cap. 29, Sansuikyō.

[32] Il Maestro Nansen Fugan (748-834), uno dei successori del Maestro Baso Dōitsu. [Nan-ch’üan P’u-yüan]

[33] Il Maestro Wanshi Shōgaku (1091-1157), nella linea di trasmissione del Maestro Tōzan Ryōkai [Hung-chih Cheng-chüeh]

[34] Cioè, qualcosa che possediamo già.

[35] Il Maestro Daiji Kanchū (780-862), nella linea di trasmissione del Maestro Hyakujō  Ekai. Il suo nome postumo fu Shōkū Daishi. [Ta-tz’u Huan-chung]

[36] Il Maestro Tōzan Ryōkai (807-869), nella linea di trasmissione del Maestro Yakusan Igen. [Tung-shan Liang-chieh]

[37] Il Maestro Ungo Dōyō (835-902), uno dei successori del Maestro Tōzan Ryōkai. Kōkaku Zenji è il suo titolo postumo. [Yün-chü Tao-ying]

[38] Si veda il cap. 33, Dōtoku.

[39] Si riferisce alla storia di un monaco che espresse il suo risveglio lavandosi la testa e presentandosi al Maestro Seppō perché gli rasasse il capo.

[40] Il Maestro Nangaku Ejō (677-744), uno dei successori del Maestro Daikan Enō. [Nan-yüeh Huai-jang]

[41] “Descrivere una cosa non coglie nel segno.” Parole del Maestro Nangaku al Maestro Daikan Enō. Si veda il cap. 57, Hensan.

[42] Regnò dall’847 all’860.

[43] Regnò dall’821 all’824.

[44] Il Maestro Kyōgen Chikan (?-898), uno dei successori del Maestro Isan Reiyū. [Hsiang-yen Chih-hsien]

[45] Il Maestro Enkan Saian (?-842), nella linea di trasmissione del Maestro Baso Dōitsu. [Yen-kuan Ch’i-an]

[46] La posizione di Segretario Generale di un tempio.

[47] Il Maestro Ōbaku Kiun (?-855?), uno dei successori del Maestro Hyakujō Ekai. [Huang-po Hsi-yün]

[48] Il Maestro Seppō Gison (822-907), uno dei due successori del Maestro Tokusan Senkan. Shinkaku Zenji è il suo titolo postumo. [Hsüeh-feng I-ts’un]

[49] Lett. “Luogo della Via”. Indica un luogo dedicato allo studio e alla prassi.

[50] Il Maestro Tōzan Ryōkai (807-869), nella linea di trasmissione del Maestro Yakusan Igen. [Tung-shan Liang-chieh]

[51] Il Maestro Tōsu Gisei (1032-1083), nella linea di trasmissione del Maestro Tōzan Ryōkai. [T’ou-tzu I-ch’ing]